La paura del “diverso” : come nascono i pregiudizi e gli stereotipi

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Quando si parla di pregiudizio nel linguaggio comune si fa riferimento ad un’accezione di tipo negativo, come un’antipatia  verso singole persone, gruppi o minoranze. In realtà il pregiudizio è un tipo di giudizio formulato “a priori”, cioè prima della conoscenza diretta e può essere sia negativo che positivo.  In psicologia sociale la definizione condivisa di pregiudizio è appunto un’antipatia o un atteggiamento sociale denigratorio verso particolari gruppi, che viene esteso in maniera indiscriminata per tutti gli appartenenti ad essi (Voci, Pagotto, 2010).  Ovviamente l’idea socialmente condivisa è che questo sentimento sia deprecabile, tuttavia gli studiosi psicosociali hanno sottolineato che il pregiudizio è un prodotto del normale funzionamento della mente umana. Questi meccanismi mentali sono di natura cognitiva e motivazionale. Le basi cognitive del pregiudizio riguardano gli schemi mentali, la categorizzazione ed il ruolo di sé.  Gli schemi rispondono ad un sistema di economicità del cervello, ossia ogni stimolo o informazione registrata diventa uno schema che torna saliente quando si presenta un altro stimolo simile; quando gli schemi si riferiscono a gruppi di persone prendono il nome di stereotipo.  Lo stereotipo è una semplificazione della realtà tramite rappresentazioni mentali che raggruppano concetti in base a fattori che li accomunano (ad es: i tedeschi sono tutti biondi), tralasciando quelli che invece li differenziano.  Quindi potremmo dire che lo stereotipo è l’effetto collaterale del normale processo di categorizzazione, secondo il quale la complessità dell’ambiente viene ridotta associando stimoli simili nello stesso insieme categoriale.  Naturalmente il processo di categorizzazione riguarda anche il Sé: la rappresentazione cognitiva di sé stessi tramite la quale delimitiamo confini tra noi stessi e gli altri.  Il Sé comprende anche il concetto di identità sociale, coniato dal celebre psicologo sociale Tajfel, che riguarda il sentimento di appartenere ad un gruppo sociale detto ingroup (noi) diverso da un altro outgroup (loro). È facile intuire che il risultato immediato di questo processo è la preferenza per l’ingroup, che si traduce in stereotipi negativi e pregiudizi a svantaggio dell’outgroup.  Questo meccanismo basilare è dimostrato da Tajfel creando in laboratorio gruppi di partecipanti divisi in base alla preferenza di quadri di Klimt o Kandiskij: già in queste condizioni artificiose, che non previdero interazioni o conoscenze tra i partecipanti, si presentarono forme di discriminazione tra i due gruppi, dimostrando come la categorizzazione sia alla base della nascita dei pregiudizi.

 

La distinzione tra ingroup e outgroup è quindi importante perché fornisce informazioni sui comportamenti e sul mondo sociale, è fonte di sostegno emotivo e materiale e definisce la propria identità sociale. Naturalmente i fattori che determineranno quale categoria verrà usata in una determinata situazione, dipenderanno dal contesto: ognuno di noi è immerso in un vasto numero di realtà gruppali, come la famiglia, il gruppo religioso, quello scolastico, quello lavorativo, quello politico, con finalità norme e relazioni differenti al suo interno. Ma il minimo comune denominatore sarà la categorizzazione di sé che in quel momento renderà saliente un gruppo piuttosto che un altro.  Quindi se due individui sono membri dello stesso gruppo politico, condivideranno pensieri, emozioni, appartenenza e saranno separati dall’outgroup di cui fanno parte persone di fazioni politiche opposte. Ma se diventa saliente la categoria “genere sessuale”, l’assetto ingroup e outgroup cambia e si troveranno a far parte dello stesso gruppo le donne da una parte e gli uomini dall’altra giudicandosi di nuovo rispettivamente ingroup e outgroup.

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Inoltre è interessante la percezione intergruppo sull’omogeneità dello stesso: i membri degli outgroup sono percepiti come maggiormente omogenei rispetto a quelli ingroup   (“loro sono tutti uguali mentre noi tutti diversi”). La percezione di omogeneità ovviamente è più attribuita all’outgroup poiché si parte dal presupposto che i membri dello stesso gruppo abbiano maggiori rapporti tra loro, si conoscano meglio e quindi avranno una rappresentazione più differenziata e complessa dei propri membri rispetto a quelli outgroup ( ad es: non vi è capitato di pensare che i cinesi si assomiglino tutti tra loro, di fare fatica a distinguerli e di percepirli tutti uguali? Eppure la popolazione cinese è una delle più numerose della terra, quindi è molto più probabile che ci sia ampia varietà di individui, tratti e caratteristiche che la contraddistinguano) . Inoltre all’interno del gruppo è compreso il proprio Sé, quindi l’identificazione con l’ingroup porta la naturale preferenza per esso e  il giudizio positivo per rafforzare la propria autostima. L’appartenenza ad un gruppo definisce una parte del sé, l’identità sociale, quindi una persona potrebbe fare attribuzioni interne e sentirsi addosso tutto il peso delle discriminazioni per il proprio ingroup, sperimentando dannose conseguenze sul proprio benessere. Questa condizione di sofferenza però può creare all’interno del gruppo discriminato un clima solidale, di sostegno reciproco e di identificazione sociale maggiore, stimolandone i membri a unirsi, attraverso movimenti, manifestazioni e attività per modificare la situazione di sofferenza.  Quindi se come dicono gli studi, si tende maggiormente a favorire il proprio gruppo, piuttosto che denigrare l’outgroup, come mai si riscontra sempre più spesso un accanimento discriminatorio nei confronti di altri gruppi minoritari ( migranti, gruppi politici o religiosi, ecc..)?

Molti studi hanno evidenziato che la distanza tra le culture, o semplicemente tra due gruppi diversi, è dovuta all’ansia che sperimentano i propri membri in una situazione di interazione; ansia dovuta alla non conoscenza dell’altro o alla sensazione di minaccia del “diverso e sconosciuto”. L’ansia può essere vissuta sia tra i gruppi che devono entrare in relazione tra loro, sia tra i gruppi discriminati che sperimentano di conseguenza una peggiore performance e la conferma dello stereotipo negativo.  Gli studiosi hanno dimostrato come l’assunzione di prospettiva e l’empatia abbiano un forte potenziale sull’avvicinare le persone e quindi possano risultare molto efficaci nel ridurre il pregiudizio. questo accade perché la prospettiva di un’altra persona ci consente di capirne pensieri ed emozioni: l’atto di “mettersi nei suoi panni” è uno strumento per comprenderne gli atteggiamenti e se una persona si trova in una situazione di disagio o sofferenza, può portarci a reagire in modo compassionevole e provare empatia.

“L’empatia viene sentita come la comprensione dell’altro che si concretizza immergendosi nella sua soggettività senza sconfinare nell’identificazione.”

Carl Rogers

Assumere la prospettiva di un’altra persona, specialmente se si tratta di gruppi discriminati, può essere un’efficace strategia per migliorare le relazioni integruppi perchè porta una riduzione di sentimenti negativi e l’attuazione di comportamenti di aiuto (Voci,Pagotto. 2010). Essendo quindi l’empatia una risposta emotiva che fa leva sui sentimenti delle persone, può agire direttamente sulla componente affettiva del pregiudizio, riducendolo.  Ovviamente questo non è sufficiente, poichè se ascoltare la storia di un gruppo vittima di pregiudizio, produce una risposta emotiva che riduce il livello di ansia, tale risposta potrebbe essere indirizzata solo verso il membro dell’outgroup di cui si conosce la storia e non estenderlo a tutti i membri, poichè non è giudicato rappresentativo dell’intero gruppo.

Per questo lo psicologo Gordon W. Allport ( 1897-1967) era convinto che il pregiudizio fosse il risultato di una scarsa conoscenza tra i gruppi, e quindi si poteva ovviare attuando programmi di integrazione basati sul contatto.

Il contatto concepito da Allport aveva 4 precondizioni indispensabili per la riuscita: la natura cooperativa delle interazioni, la presenza di scopi comuni, l’interazione tra i gruppi di simile status e la presenza di un sostegno istituzionale. Il corpo di questa ipotesi tuttavia si svolge su un dibattito  in vigore ancora oggi : è emerso che quando le 4 precondizioni vengono rispettate, vi è un’effettiva riduzione del pregiudizio, ma vi sono anche casi in cui gli altri livelli di pregiudizio impediscono che vi sia il contatto.

Per esigenze di brevità e per la complessità di questo argomento, in questa sede è impossibile dare un’ampia lettura degli studi, degli esperimenti e dei risultati, e lungi da chi scrive pensare di ridurre tutto a situazioni causa-effetto quando si parla della varietà umana. Tuttavia è nostro interesse sottolineare come spesso, la paura del diverso sia solo il risultato della non conoscenza, e ciò che non si conosce spaventa. I fatti di cronaca sono pieni di episodi di violenza, sui social dilagano atteggiamenti negativi e discriminanti verso le minoranze più disparate, e spesso anche attività ludiche come la fede calcistica si trasformano in episodi di violenza. Per questo, potrebbe essere utile, come suggeriscono Voci e Pagotto, mostrare alle persone attraverso i mass media o in specifici programmi scolastici che nelle società sono presenti molteplici ingroup incrociati tra loro e quindi che la dicotomia “noi -loro” è mutevole e instabile e non può essere la base per una percezione attendibile della realtà.  E’ auspicabile considerare la diversità come un concetto di ricchezza comune e non come handicap.

 

Dott.ssa Sara Longari

 

Bibliografia

Allport, G. W. The nature of prejudice. New York: Addison-Wesley, 1954.

Tajfel, H. (1981)- Gruppi umani e categorie sociali. Bologna: Il Mulino, 1995.

Voci-Pagotto – Il pregiudizio, cosa è e come si riduce. Bari: Ed. Laterza, 2010

 

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