Infertilità e Sterilità: l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come le definisce?

Qualche anno fa il Ministero della Salute ha promosso la Giornata Nazionale del “Fertility Day”, una campagna dedicata alla formazione e all’informazione sulla fertilità, procreazione e riproduzione umana, con l’obiettivo di aumentare soprattutto nei giovani la conoscenza sulla propria salute riproduttiva e fornire strumenti utili per tutelare la fertilità attraverso la prevenzione, la diagnosi precoce e la cura delle malattie che possono comprometterla. L’idea di promuovere il “Fertility Day” deriva dai risultati di numerose ricerche, i quali riportano che nell’ultimo ventennio 1 coppia su 5 ha difficoltà a procreare per vie naturali per cause di infertilità che riguardano parimenti l’uomo e la donna nel 40% e per il restante 20% la coppia.

L’OMS per infertilità intende quella condizione in cui una coppia dopo almeno un anno di rapporti sessuali continuativi e non protetti non riesce ad ottenere una gravidanza nonostante la presenza di un buono stato di salute apparente dei partner. Per sterilità invece si fa riferimento all’impossibilità del concepimento a causa di una condizione fisica permanente che colpisce uno o entrambi i partner, quali la presenza di azoospermia (assenza di spermatozoi nell’eiaculato), menopausa precoce o Sindrome di Rokitansky (rara malformazione che determina assenza congenita di utero e tube).

Fertility-DayDa un punto di vista psicosessuologico, cosa succede ad una coppia quando la volontà di procreare e il desiderio di un figlio si scontrano con una evidente difficoltà nel concepimento?

L’infertilità e la sterilità rappresentano un momento di forte crisi e stress nella coppia, i partner vivono nell’angoscia di finalizzare l’atto sessuale alla procreazione, ma soprattutto si vergognano di raccontare ai medici la parte più intima della loro relazione. Inoltre, vi è una diminuzione dell’autostima personale e sessuale poiché l’incapacità di generare può essere confusa con l’inadeguatezza sessuale, provocando nel partner infertile la perdita della capacità di sentirsi attraente ed in grado di attrarre. Ulteriormente, i rapporti sessuali esperiti in funzione non più del piacere, ma del desiderio di avere un bambino, possono generare paure, ansie, sconforto, senso di fallimento e perdita della speranza, pertanto l’attività sessuale spogliata del suo potenziale riproduttivo viene vissuta come vuota e meccanica.

relazione-fecondaQual è l’iter che una coppia infertile deve seguire quando decide di rivolgersi al medico o a centri specializzati in medicina riproduttiva per una richiesta di assistenza medica?

In primis, la coppia deve essere consapevole che inizia un percorso che può durare a lungo e che prevede una fase diagnostica e una fase terapeutica, spesso da percorrere a tappe. Pertanto allo stato di grande disagio psichico che la coppia vive dal momento in cui scopre la propria condizione di infertilità, si aggiungono l’ansia di non potere risolvere “subito” il problema, la necessità di utilizzare energie fisiche e psicologiche, oltre che l’impegno di tempo, per affrontare le varie tappe del percorso, la depressione per gli eventuali fallimenti ed il rischio di non recuperare le forze sufficienti per andare avanti, dunque la qualità di vita, le relazioni famigliari, sociali e lavorative ne possono risentire.

La fase diagnostica è finalizzata alla ricerca della causa, o delle cause, dell’infertilità, ma non sempre è possibile giungere ad una diagnosi certa. Nel momento in cui una coppia “scopre” di non riuscire ad avere figli, entrambi i partners devono essere valutati con indagini di primo livello che prevedono:

  • anamnesi personale e famigliare della coppia;
  • esame obiettivo ed ecografia pelvica per la donna;
  • esame obiettivo, eco-colordoppler scrotale, dosaggi ormonali e due o più esami del liquido seminale per l’uomo.

Successivamente, l’iter diagnostico può seguire strade diverse a seconda della presenza di fattori femminili e/o maschili di infertilità.

Quali possono essere i fattori femminili di infertilità?

  1. Disturbi del ciclo ovulatorio: tra questi, i più frequenti sono rappresentati dall’ovaio micropolicistico (PCOS), dalla assenza (amenorrea) o irregolarità (oligomenorrea) del ciclo mestruale di origine ipotalamo-ipofisaria, dall’aumento della secrezione di prolattina (iperprolattinemia).
  2. Alterata funzionalità delle tube: impervietà, stenosi, alterata motilità, fimosi delle fimbrie, danno dell’apparato ciliare. Nella maggior parte dei casi, il danno alle tube è provocato da episodi infiammatori che sono quasi sempre asintomatici.
  3. Endometriosi o adenomiosi: è una malattia molto frequente e rappresentata dalla presenza di tessuto endometriale (l’endometrio è la mucosa che riveste internamente la cavità dell’utero) in sede ectopica, per lo più pelvica. L’alterazione della funzionalità dell’utero può provocare sintomatologia dolorosa.
  4. Alterazioni dell’utero: rappresentate da malformazioni congenite (utero bicorne, setti, subsetti) o patologie acquisite (fibromi, endometriti, polipi, sinechie).
  5. Fattori genetici e congeniti: alterazioni numeriche o strutturali del cariotipo possono rispettivamente provocare una menopausa precoce o un elevato rischio di aborti ripetuti.
  6. Terapie anti-tumorali: cicli di chemio e/o radioterapia possono distruggere la funzionalità del tessuto ovarico provocando una menopausa precoce.
  7. Fattori nutrizionali, abitudini di vita, malattie sistemiche, stress: è chiaramente dimostrato che l’abuso di alcool, fumo e droghe può costituire un fattore di rischio riproduttivo. Anche l’insorgenza in età giovanile di malattie metaboliche o autoimmuni danneggiano, spesso in maniera importante, gli organi riproduttivi. Disturbi alimentari come anoressia o obesità, possono portare a gravi alterazioni del ciclo ovulatorio, oltre a compromettere lo stato di salute generale della donna.
  8. Fattore età: assume un ruolo di fondamentale importanza nella fecondità femminile. Il culmine della fecondità si raggiunge verso i 20-24 anni, dopo i quali inizia una lenta ma costante riduzione, che diventa più rapida dopo i 38-40 anni. L’età superiore ai 40 anni può rappresentare da sola la causa primaria della infertilità. Con l’avanzare dell’età, da un lato si riduce progressivamente il numero ovociti disponibili, dall’altro essi vanno incontro ad un ineluttabile invecchiamento con conseguente diminuzione della loro qualità. Il maggiore tempo di esposizione a fattori di rischio quali infezioni, endometriosi, fibromi ecc, può inoltre compromettere ulteriormente la fertilità. Il progressivo procrastinare della età media alla quale le coppie decidono di riprodursi, ha quindi ripercussioni fondamentali sulla fertilità.

Quali possono essere i fattori maschili di infertilità?

  1. Alterazioni ormonali: modificazioni del funzionamento dell’ipofisi, della tiroide, delle ghiandole surrenali o della parte endocrina del testicolo stesso possono alterare il processo di formazione degli spermatozoi (gametogenesi).
  2. Varicocele: si tratta di una dilatazione anomala del sistema venoso che drena il testicolo che tende ad alterare la qualità del liquido seminale.
  3. Infiammazioni genitali: acute o croniche dei testicoli, della prostata o dell’uretra possono alterare la qualità dello sperma.
  4. Cause iatrogene: alcuni farmaci possono inibire la produzione di spermatozoi direttamente e/o alterando i livelli di alcuni ormoni.
  5. Patologia testicolare: traumi, torsioni, neoplasie, orchite, criptorchidismo e interventi chirurgici a carico dei testicoli sono coinvolti nell’ alterazione della gametogenesi.
  6. Malattie sistemiche: possono indurre un deficit della gametogenesi quali malattie autoimmuni, diabete, insufficienza epatica e renale, sarcoidosi.
  7. Problemi sessuali: pudori e desiderio di paternità possono nascondere problemi sessuali quali eiaculazione precoce (ante portam), anaeiaculazione o disfunzione erettile.

Il percorso diagnostico prevede su entrambi i partners una serie di esami relativamente semplici. Troppo spesso, però, queste indagini vengono diluite nel tempo (consiglio, prescrizione, effettuazione) e negli spazi (strutture sanitarie di diversa tipologia), richiedendo un consumo di tempo e di energie che non possono che creare “ansia”. La coppia infertile vive il “tempo” come un bene prezioso sotto tutti i punti di vista. Ridurre e razionalizzare i tempi laddove è possibile può aiutare le coppie a vivere con minor ansia la condizione di infertilità.

Come si struttura la fase terapeutica?

Il percorso terapeutico deve osservare alcune regole fondamentali: ripristinare la fertilità spontanea ogniqualvolta sia possibile; consigliare alla coppia un tempo “di attesa” (massimo 6-12 mesi) prima di qualsiasi trattamento quando la probabilità statistica di un concepimento naturale è ancora relativamente elevata; scegliere il trattamento considerato “ottimale” in base a criteri di invasività, efficacia e rischi; sconsigliare di accedere al percorso terapeutico qualora esistano nella coppia condizioni tali da rendere ogni trattamento oggi disponibile ad elevato rischio di insuccesso. Nella scelta del trattamento devono inoltre essere tenuti in considerazione: l’età della partner femminile, ricordando che, oltre i 35 anni, fattori fisiologici di declino della fecondità possono divenire più determinanti dei fattori patologici; la durata della infertilità, ricordando che una durata superiore a 3 anni può sottintendere una compromissione degli organi riproduttivi più severa di quanto gli esami diagnostici abbiano potuto mettere in evidenza; la possibile e frequente associazione di più fattori incrociati nella coppia. Ogni coppia deve di conseguenza essere correttamente informata sulle varie possibilità di trattamento, sulle complicanze, sulle possibilità di successo. La scelta del trattamento deve essere un momento di stretta collaborazione tra medico e paziente, dove il medico ha il dovere di informare e la coppia il diritto di decidere.

Sitografia:

http://www.salute.gov.it

http://www.sismer.it

Dott.ssa Consiglia – Liliana Zagaria

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Adolescenti, sviluppo e sessualità: istruzioni per i genitori.

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fonte:amando.it

Nella vita dei genitori  sono molti i momenti di difficoltà educativa che si attraversano, ma certamente nessun periodo della vita provoca ansia alle mamme ed ai papà come il momento in cui i figli, fino ad allora considerati piccoli e indifesi, si affacciano allo sviluppo adolescenziale. I dubbi sulle giuste regole educative da imporre, le preoccupazioni sulle amicizie e sulla scuola, le prime litigate furibonde sull’orario di rientro e soprattutto, il più grosso tabù di un genitore: “A che età mio/a figlio/a scoprirà la sua sessualità?” .Tutti noi siamo stati adolescenti e chi più chi meno, abbiamo subito ramanzine, siamo stati controllati dai nostri genitori, e spesso siamo riusciti ad evadere dalle imposizioni e dalle regole che ci hanno imposto, eppure ora, da adulti, nel ruolo genitoriale troppo spesso ci si dimentica di quanto sia delicata questa fase di vita per chi la vive in prima persona: gli adolescenti.  Certo è vero, i genitori di oggi si trovano ad affrontare situazioni che ai nostri genitori non sono capitate, poiché viviamo in un’epoca in cui la sessualità è sdoganata dalle televisioni (reality 24h su 24h che mostrano momenti di intimità tra i protagonisti), i primi smartphone con accesso ad internet vengono consegnati a ragazzi sempre più giovani (già a 10 anni si è in possesso di smartphone di proprietà del fanciullo, ma basta guardarsi intorno per rilevare come già bambini di 3-4 anni siano in grado di armeggiare tra link e video dai cellulari dei genitori), i computer vengono utilizzati dai ragazzi spesso senza un controllo adulto, accedendo quindi a contenuti anche hard, che sicuramente non sanno gestire dal punto di vista emotivo. E’ chiaro quindi che oggi si presenta un paradosso pedagogico: in un periodo storico in cui si parla di sessualità fluida, accessibile e normalizzata rispetto al passato, il compito genitoriale richiede una maggiore attenzione all’educazione per essere una guida sana ed equilibrata per i propri figli.

faz.netChiariamo il primo concetto fondamentale: adolescenza e pubertà sono due aspetti diversi di una fase di crescita umana; la pubertà è il cambiamento fisico e ormonale (dagli 11 ai 16 anni) che comporta la comparsa delle prime mestruazioni nelle ragazze (menarca) e della produzione dello sperma nei ragazzi (spermarca), vi è quindi la maturazione dei caratteri sessuali primari che permette la funzionalità degli apparati anatomici, e la comparsa dei caratteri sessuali secondari associati a modificazioni morfologiche (aumenta l’altezza, vi è la comparsa dei peli pubici e ascellari,  della barba nei maschi, crescono i seni alle ragazze, vi è una modificazione della voce, la comparsa dell’acne tipica dello sbalzo ormonale).

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fonte:vix.com

Un primo importante aspetto psicologico da considerare è che la maturazione puberale dichiara al mondo la propria mascolinità o femminilità biologica e la capacità di riproduzione, e questo è evidente soprattutto per le ragazze, per un motivo molto semplice: il ciclo mestruale è qualcosa di lampante (si vede) e spesso questo passaggio (soprattutto nei piccoli centri) è un momento in cui la famiglia viene resa partecipe in una certa misura (la mamma, le zie, di solito sono coinvolte dalle ragazze se non altro perché ci si trova per la prima volta a districarsi con gli assorbenti), mentre per i maschi questo aspetto resta maggiormente nella sfera privata (spesso la prima eiaculazione avviene tramite masturbazione, che per i ragazzi è un’attività che inizia molto precocemente, o per polluzioni notturne quindi è possibile che il ragazzo stesso non si accorga di questo momento di sviluppo). La masturbazione sembra essere la modalità predominante di espressione sessuale per gli adolescenti maschi, molto meno per le femmine (scoraggiate fin da piccolissime all’esplorazione manuale del proprio corpo, ed educate con lo stereotipo che la sessualità sia una cosa concessa più ai maschi). L’adolescenza  invece è il periodo di transizione psicologica e sociale tra l’infanzia e l’età adulta: essa varia per durata, qualità e significato da una civiltà all’altra e all’interno della stessa civiltà anche da un gruppo sociale all’altro. L’aspetto di transizione riguarda la separazione dalla fanciullezza e dai genitori e lo stabilirsi di un’identità sessuale adulta e della capacità di intimità. Ma non solo, poiché gli adolescenti si trovano in uno stallo di riconoscimento sociale: non sono più considerati bambini, ma non sono nemmeno adulti, perciò nella quotidiana lotta di accettazione e scoperta del proprio corpo che cambia forma, esigenze e odore, vi può essere la confusione di una richiesta sociale che spesso risulta “bipolare”. L’adolescente si accorge che lo spazio dei sentimenti familiari deve essere modificato, sente di doversi porre diversamente rispetto alla famiglia per poter accedere ad altri legami. Ci si deve staccare dall’immagine di sé infantile, dalle gratificazioni a cui l’infanzia ci ha abituato (Consolo,2016).
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Questo processo di separazione fa parte del normale ciclo di vita, si realizza gradualmente e non implica la fine di un rapporto ma una sua trasformazione. Se non si presentano particolari difficoltà, si assiste ad un cambiamento della relazione genitori-figli in senso più maturo e simmetrico, indispensabile per il raggiungimento di una condizione di autonomia fisica ed emotiva (Consolo,2016).

Nella seconda metà dell’adolescenza da 15 a 19 anni, le dimensioni adulte vengono più o meno raggiunte mentre la maturità psicosociale ritarda ancora: gli individui lottano per l’autonomia, l’accettazione del gruppo dei pari e l’assunzione di rischi diventa sempre più importante. Per gli adolescenti il cui orientamento sessuale è omosessuale, la tarda adolescenza è spesso il periodo in cui essi si separano dal mondo eterosessuale (molti omosessuali dichiarano di aver fatto le prime esperienze sessuali con persone di sesso opposto, per la non-accettazione del proprio orientamento o semplicemente per non essere discriminati), consapevoli dei numerosi giudizi omofobici del mondo etero,ma arrivati a questa fase per la maggioranza si palesa una consapevolezza (qui un articolo sull’argomento) . In epoca adolescenziale il necking (stimolazione dalla vita in su) e il petting (stimolazione dalla vita in giù) costituiscono un importante occasione di conoscenza sessuale, ma l’esperienza più rivelante è ovviamente il rapporto completo. Sebbene non tutti gli esperti concordino circa l’età appropriata per il primo rapporto, la maggior parte conviene sul fatto che la prima adolescenza fino ai 14 anni sia troppo precoce e le conseguenze correlate ad una sessualità troppo precoce sono molteplici: comportamenti a rischio come uso di alcol e droghe, mancanza di contraccezione e quindi il rischio di contrarre malattie a trasmissione sessuale e gravidanze  indesiderate, abbandono scolastico. MST-511x340 Al termine dell’adolescenza, la maggior parte degli individui ha avuto rapporti sessuali con regolarità e ha sviluppato un’identità sessuale consolidata. C’è da tenere conto che la precocità puberale  facilita un inizio altrettanto precoce di attività sessuale, ma anche lo sviluppo cognitivo e affettivo di ogni giovane influisce sulla sua capacità di cogliere gli effetti a medio e lungo termine delle proprie condotte sessuali. Le modalità di attaccamento vissute nell’infanzia faranno da traccia per le sue relazioni (ne abbiamo parlato qui). Secondo Fabbrini e Melucci (1992) la capacità di innamorarsi è il segno più caratteristico di questa età e la più convincente dichiarazione di salute che un adolescente possa dare di sé. Per questo da genitori, bisogna ricordarsi che essere una guida attenta e autorevole (non proibitiva, attenzione!) è importante specialmente in una fase di vita in cui la sfida dell’autorità è un mezzo per l’affermazione di sé, ma è altrettanto fondamentale non diventare nemici dei propri figli, riuscire ad aprire un dialogo nel quale essi possano sentirsi liberi di affrontare certi argomenti  senza il muro dei tabù, in modo da evitare che essi attingano da fonti impreparate come il gruppo di pari, o molto confusionarie come la rete e i social media.

adolescenti e internet

Non si deve demonizzare il sesso, ma responsabilizzare gli adolescenti a rispettare il proprio corpo, i propri desideri e a dare il giusto peso alle relazioni affettive. Ricordiamo ancora una volta, a questo proposito, l’importanza di  programmi di educazione affettiva e sessuale nelle scuole (già dalle classi elementari) che possano sollevare i genitori dalla specificità di determinate tematiche, che sono retaggio di professionisti del settore medico, psicosessuologico ed educativo  che sanno conferire informazioni corrette e proporzionate all’età dei bambini e ragazzi che ne usufruiscono.

(per tutti i genitori che vogliono approfondire questo importante argomento suggeriamo le letture dei testi di Alberto Pellai)

Dott.ssa Sara Longari

Bibliografia:

Consolo I., Slides “Adolescenza e sessualità”.2016  Primo anno di corso di Psicosessuologia presso l’IISS, Roma

Dèttore D., Psicologia e psicopatologia del comportamento sessuale. McGraw-Hill. Milano 2001

Pellai A., Tutto troppo presto. L’educazione sessuale dei nostri figli nell’era di internet. DeAgostini. Milano, 2015

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Le identità multiple negli immigrati di seconda generazione.

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In un articolo precedente (link) è stato esplorato il costrutto dell’identità e approfondita l’identità sociale. La nostra identità è basata su pluri-appartenenze a vari gruppi e categorie sociali. Tutti noi rivestiamo più ruoli, di conseguenza abbiamo una identità multipla. L’identità è contestuale e relazionale, cioè essa può variare in base al contesto, al ruolo che si intende assumere in tale contesto ed alla posizione che si gioca all’interno della rete di relazioni.  Ogni persona che incontriamo nella nostra vita, appartiene a diversi gruppi sociali e queste appartenenze vengono rimescolate e moltiplicate da fenomeni, come ad esempio la migrazione e la globalizzazione, che causano l’intersecazione di gruppi e categorie che non avrebbero avuto, altrimenti, nessun tipo di contatto.

A questo punto è lecito chiedersi: “Quali sono le conseguenze di una identità sociale caratterizzata da un grado più o meno elevato di complessità?”

Da vari studi sembra che un certo grado di complessità giochi un ruolo positivo per l’identità sociale, infatti l’aumentare della stessa comporta un aumento della tolleranza e degli atteggiamenti positivi nei confronti degli individui facenti parte dell’outgroup. Gli studi e le teorie sulle appartenenze sociali multiple mostrano il bisogno di comprendere i processi in atto in una società sempre più complessa come quella in cui viviamo, al fine di programmare interventi utili a favorire e migliorare la convivenza tra gruppi sociali.  Uno dei fenomeni di maggior spicco che sta interessando l’Italia, come ogni altro Paese, è il fenomeno migratorio che  via via va allargandosi sempre più, comportando svariate conseguenze sul piano psicologico, sul nuovo inserimento in una società diversa da quella di origine, sul confronto con nuove persone, sulla socializzazione, sulla costruzione di una nuova identità. Nella mediazione di questi cambiamenti, un ruolo importante è ricoperto dalla famiglia, da sempre considerata il nido di riparo, che grazie al suo sostegno riesce a mediare le pratiche tradizionali con i nuovi stili di vita.

racismo2La famiglia gioca un ruolo fondamentale nella ridefinizione di confini psicologici e nella formazione di nuove identità, accompagna nel processo di inclusione sociale fornendo sostegno e risorse affettive, sebbene possa essere anche un luogo di conflitti e negoziazione tra pratiche tradizionali e nuovi stili di vita. (G.G. Valtolina, A. Marazzi, Milano 2006).

Le famiglie immigrate si trovano, comunque, a dover affrontare un compito più impegnativo e difficoltoso rispetto ai compiti a cui assolve una normale famiglia. Infatti le famiglie immigrate, oltre ad avere il compito di tramandare la propria cultura e le proprie radici storiche, hanno l’importante compito di informare i proprio figli sul fatto che costituiscono un gruppo minoritario nel nuovo paese, comportando, ciò, fenomeni di discriminazione e, dunque, si presenta la necessità di avere comunità più tolleranti e più inclusive nei confronti di civiltà diverse. Da diversi anni, ormai, si sente parlare di            “immigrati di seconda generazione”: con questa espressione si intendono i figli di stranieri, nati in Italia o giunti nel nostro paese nei primi anni di vita. Si tratta di una nuova tipologia di persone che matura aspettative sia da parte della famiglia che dalla società nella quale vivono, modi di vita, competenze e valori simili a quelli della popolazione autoctona, presentando tuttavia specificità e problematiche.

Non è propriamente corretto definire gli immigrati di seconda generazione come stranieri. Questi bambini, rispetto ai bambini italiani, fanno le stesse cose, sono anch’essi bambini che frequentano la scuola, parlano la stessa lingua, giocano e si divertono insieme, eppure  sono maggiormente esposti a situazioni di rischio e difficoltà psicologiche, sociali, relazionali e di carattere politico.

Essi, infatti, molto spesso incontrano disagi nei processi di costruzione identitaria, costretta ad una ridefinizione, fallimenti scolastici; marginalità, anche occupazionale; atteggiamenti di discriminazione su base etnica da parte della popolazione autoctona e tra gruppi diversi di origine immigrata; assenza di spazi personali (Ambrosini & Molina, 2004).

Parlare dell’identità dei bambini e degli adolescenti di origine straniera significa mettere al centro il tema della loro collocazione tra due mondi: quello di origine e quello di accoglienza. Nel momento in cui un individuo, nato in un determinato ambiente, emigra in un altro Paese diverso per lingua, cultura, religione, stile di vita, mette in atto delle strategie identitarie per far fronte alle richieste del nuovo ambiente e per meglio adattarsi, nel tentativo di farsi accettare, riconoscere e valorizzare. Nell’adolescente, figlio di genitori immigrati o anch’esso immigrato, la costruzione dell’identità è un viaggio tra perdite e ritrovamento che nasce e si consolida grazie alla possibilità di riconoscersi in un gruppo e di costruire una propria identità contenente aspetti della cultura passata e aspetti della nuova cultura.

consulta-cultureAvere identità multiple costituisce una risorsa importante: oltre ad attivare processi empatici e capacità di assumere prospettive multiple,  i ragazzi con identità multiple presentano maggiore flessibilità e più facile accesso ad una molteplicità e varietà  di diversi sè.  Tanta è la paura di questi ragazzi e ragazze di subire rifiuti e atteggiamenti razzistici e discriminatori, tutte  situazioni che generano malessere e che possono sfociare in ostilità e conflitto. 

Diventare grandi, costruirsi un’identità in un contesto che non è quello di origine, in un ambiente dove si realizza l’incontro e il confronto tra due culture a volte in contrapposizione, significa vivere tale processo in mancanza di forti modelli di identificazione, in quanto il modello familiare può risultare a volte debole poiché rappresenta valori e tradizioni diversi da quelli della cultura maggioritaria. Spesso il minore immigrato o di origine immigrata svaluta le figure genitoriali e la propria origine. D’altra parte però anche la cultura maggioritaria, che certamente attrae il ragazzo, non è in grado di colmare il bisogno di identificazione e di certezze poiché cultura ostile o semplicemente poco conosciuta. Ciò che poi rende particolare tale fase di crescita per i minori immigrati è vivere in coincidenza la “crisi” adolescenziale e il processo di elaborazione dell’esperienza migratoria o l’appartenenza a due mondi. Certo è che sul benessere di questi bambini incide anche il grado di ospitalità proprio dell’ambiente di inserimento. I bambini stranieri riusciranno infatti a valorizzare la loro appartenenza solo e se questa verrà riconosciuta e non limitata o sminuita.

Nella promozione dell’integrazione di culture diverse un ruolo importante è svolto dalle scuole, da sempre considerate come luogo di sviluppo culturale, capace al contempo di creare uno spazio comune dove dar vita alla comunicazione, al confronto, luogo di crescita e di coesione. Una scuola non accogliente o semplicemente non preparata ad accogliere alunni stranieri può causare un allontanamento e un abbandono di questi ultimi creando spazi di marginalità ed esclusione sociale. 

E’ fondamentale garantire le pari opportunità, promuovere la protezione, l’interesse superiore e l’accoglienza, perchè il minore straniero non accompagnato è prima di tutto minore, ma solo e straniero. Accogliere questi minori vuol dire farsi carico delle loro esigenze, assicurarsi che vengano sviluppate le condizioni adatte perchè il minore possa trovare buone prospettive di vita, dedicargli degli spazi dove trovare espressione dei suoi bisogni, salvaguardare i suoi diritti, coinvolgerlo attivamente alla vita, fornire un luogo caldo e sicuro, un luogo che eviti la solitudine del minore straniero, farlo sentire a casa. Sviluppi recenti hanno potuto mettere in evidenza che  i ” nuovi italiani” grazie all’evoluzione della tecnologia, hanno avuto modo di sviluppare una rete comunicativa chiamata “Rete G2”. I sostenitori di questa rete sono fermamente convinti che gli immigrati di seconda generazione rappresentano un’importante risorsa. Questa innovativa rete si propone tra i tanti obiettivi, anche quello di consentire a tutti di sapere quali siano le reali condizioni di questi giovani immigrati, suggerendo una modifica della legge sulla cittadinanza al fine di evitare questa continua separazione tra minori figli di immigrati e minori figli di italiani. Questa rete costituisce un’importante risorsa in grado di favorire  l’incontro e lo scambio tra giovani stranieri e italiani; azioni che sostengano la ricerca e la produzione culturale dei giovani con culture diverse, azioni che prevedano l’incontro ed il dialogo tra immigrati di prima e seconda generazione e la società italiana.

Dott.ssa Teresa Marrone

Foto prese dal web

Bibliografia

Ambrosini M., Molina S. (a cura di), Seconde generazioni. Un’introduzione al futuro
dell’immigrazione in Italia., Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, 2004.

G.G. Valtolina, A. Marazzi (a cura di), Appartenenze multiple. L’esperienza dell’immigrazione nelle nuove generazioni., Franco Angeli, Milano, 2006.

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Complessità del ruolo genitoriale per madri single: un percorso ad ostacoli

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“Fare la mamma è un arte. E in quest’arte non serve un padre”                   (J. Foster)

 

La volontà di procreazione nasce dalla condivisione del desiderio dei partner di accogliere insieme una nuova vita e di unirsi in maniera profonda per permettere un’evoluzione della loro vita e di quella di coppia.

Purtroppo, oggigiorno e sempre più frequentemente, la scelta di avere un figlio rappresenta un percorso decisionale unilaterale, non sempre condiviso da entrambi i partner. In situazioni di questo tipo, la relazione di coppia può attraversare un periodo difficile caratterizzato da una molteplicità di litigi alimentati da una serie di timori e preoccupazioni, quali: la perdita dei propri spazi, della propria libertà; l’aumento delle responsabilità nei confronti del bambino e il suo  sostentamento economico.

gravidanza-indesiderata-risarcimento-papà-350x320Diventare genitori è un’esperienza coinvolgente e stravolgente allo stesso tempo, specialmente nei casi in cui la gravidanza non è programmata, quest’ultima rappresenta un fulmine a ciel sereno per tutti quegli adulti che non sono in grado di riuscire ad affrontare un cambiamento così importante nel ciclo di vita come quello di transizione alla genitorialità. Nella pratica clinica non è infrequente incontrare casi in cui le relazioni di coppia cessano dinnanzi alla scoperta della gravidanza, durante la sua evoluzione o immediatamente dopo la nascita del bambino.

A questo punto una domanda nasce spontanea: “Cosa succede nel momento in cui una donna si ritrova a gestire una gravidanza o una maternità da sola?”

depressione-gravidanza-696x392Una rassegna della letteratura (Baranowska-Rataj et al., 2014) riporta che in questo momento di disperazione mista a depressione, gli aspetti negativi che caratterizzano i vissuti emotivi delle donne derivano dal senso di solitudine, abbandono ed isolamento dopo il concepimento da parte del partner nonché padre del bambino, ma anche da incertezze dovute all’organizzazione delle risorse economiche e finanziare per sostenere le esigenze del nascituro. Le ricerche sottolineano che nel momento immediatamente successivo alla chiusura di una relazione, la maggior parte delle donne vive uno stato di malessere psicologico, cognitivo ed emotivo alimentato da ansia ed angoscia che a sua volta genera una serie di pensieri disfunzionali e distorsioni cognitive, tra i più ricorrenti figurano i seguenti: “Sarò in grado di crescere e prendermi cura di mio figlio da sola? Riuscirò a garantirgli un adeguato sostentamento economico? Potrò renderlo felice?”

imagesPer far fronte a questo momentaneo sconforto iniziale, caratterizzato da senso di inadeguatezza, sfiducia e autostima carente nella neomamma, queste donne necessitano sia di un adeguato sostegno psicologico, teso a valorizzare le loro risorse e capacità e quindi arginare il senso di fallimento originariamente percepito, sia di un supporto sociale di tipo familiare o amicale che le motivi ulteriormente ad investire tutte le energie nella genitorialità, affinché il nascituro possa beneficiare di un clima materno accogliente dopo la sua venuta al mondo. iStock-520620964-e1484651124893-730x411Inoltre, anche la partecipazione a gruppi di autoaiuto sembra avere un ruolo importante nel determinare la presa di consapevolezza da parte delle neomadri per il nuovo ruolo che stanno rivestendo, ma soprattutto queste percepiscono di non essere le sole al mondo a ritrovarsi in questa condizione.

A tal proposito in letteratura (Baranowska-Rataj et al., 2014) viene dimostrato che le mamme single allevano i figli tra mille equilibrismi e difficoltà, affrontando le loro sfide quotidiane con problemi finanziari, la mancanza del sostegno e della presenza di un compagno, oltre a convivere con lo stigma sociale che deriva dal pregiudizio che ancora oggi grava sulla condizione di mamma single. mamme-single-over-40Malgrado le difficoltà economiche e i problemi di ordine pratico, le madri single riportano che i bambini rappresentano il centro assoluto del loro universo, nonché l’aspetto più gratificante e prezioso della loro vita. In molti casi è stato proprio l’arrivo del bambino e di tutte le responsabilità e le priorità che questo evento ha comportato nella vita delle mamme ad averle spinte a mettere la parola fine a relazioni sbagliate ed infelici, come se l’arrivo del bambino desse improvvisamente alla donna gli strumenti, la consapevolezza, il coraggio per fare ciò che non erano state in grado di fare prima della gravidanza.

Bibliografia

Baranowska-Rataj, A., Matysiak, A., Mynarska, M. (2014). Does Lone Motherhood Decrease Women’s Happiness? Evidence from Qualitative and Quantitative Research.  Journal of Happiness Studies, 15, 1457 – 1477.

 

Dott.ssa Consiglia – Liliana Zagaria

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Trauma materno irrisolto e trasmissione intergenerazionale

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Da decenni la psicologia prenatale e la psicologia dello sviluppo evidenziano l’importanza della relazione tra la madre e il bambino fin dai primi istanti di vita uterina, quando già si gettano le basi del rapporto di simbiosi della diade, dalla quale dipende lo sviluppo psichico e fisico del nascituro. Sentimenti positivi durante la gravidanza, la mentalizzazione di sé stesse come madri, l’immaginazione del proprio bambino, sono tutti fattori che contribuiscono al futuro attaccamento positivo sia della madre con il proprio bambino che viceversa. Stati di ansia e angoscia della madre invece, si sono rivelati correlati ad attaccamenti disorganizzati e a comportamenti ansiosi dei bambini nei primi anni di vita. Vi abbiamo parlato della teoria dell’attaccamento qui . La serenità della madre dunque si rivela fondamentale per lo sviluppo di un attaccamento sicuro. Cosa accade allora in quelle madri vittime di abusi di vario grado, che nel corso della vita hanno sviluppato una sindrome da stress post traumatico? Traumi irrisolti del passato e/o i traumi vissuti durante il delicato periodo della gravidanza, possono influenzare la mentalizzazione materna del proprio bambino e del proprio ruolo di madre? In che modo questi stati traumatizzanti possono influire sull’attaccamento madre-bambino?

La letteratura ha ampiamente studiato la profonda influenza del rischio depressivo sul comportamento materno, in grado di limitarne l’espressione emozionale, la qualità degli scambi relazionali e i processi di mutua regolazione affettiva (Tronick e Weinberg, 1997) e molti sono gli studi presenti in letteratura su quali siano i traumi infantili ed in che modo i traumi dei genitori siano trasmessi ai figli, e quali conseguenze suscitino sullo sviluppo le falle dell’attaccamento con le figure di cura. Minore attenzione è stata data al trauma materno durante la gestazione. Tuttavia trauma, dissociazione, modelli operativi interni ed attaccamento, sono concetti strettamente interconnessi.

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Un trauma irrisolto della madre può interferire con le sue abilità di rispondere alle esigenze del suo bambino, oltre che influenzare lo sviluppo dell’attaccamento di esso e contribuire alla potenziale trasmissione intergenerazionale del trauma. Da un recente studio è emerso che la riorganizzazione del trauma permette agli individui di comprendere e rielaborare le esperienze presenti e passate e muoversi verso un attaccamento sicuro. La riorganizzazione crea un equilibrio mentale riflessivo e valutativo, incorpora nuove informazioni per aggiungere nuove comprensioni della situazione e considerare altre prospettive, raggiungendo così anche una relazione cooperativa con l’interlocutore per attribuire un significato alla propria esperienza. In una ricerca americana i ricercatori hanno rilevato che le madri che durante l’infanzia avevano subito la perdita di un caregiver mostravano poi un attaccamento disorganizzato. Inoltre queste madri con traumi irrisolti o perdite infantili, tendevano ad avere anch’esse figli con attaccamento insicuro, in misura maggiore rispetto a madri che avevano un trauma irrisolto ma avevano sviluppato un attaccamento sicuro, a dimostrazione dell’ipotesi che l’attaccamento insicuro possa divenire intergenerazionale.

I bambini di madri traumatizzate appaiono avere anche difficoltà nel cercare conforto in condizioni di stress e dimostrano sovente un comportamento allarmato e spaventato in presenza della loro madre traumatizzata. Esplorando la relazione tra una storia di trauma e la sintomatologia di madri in attesa, con il successivo sviluppo dell’attaccamento, gli studiosi hanno trovato che il trauma interpersonale ha effetti negativi sull’attaccamento prenatale, tale che questa interferenza nella relazione madre-bambino è associata con la percezione materna che il feto sia come una “lama” nel proprio corpo. Un trauma irrisolto o una perdita, possono interferire con le aspettative materne e le percezioni del bambino, così come sulle sue abilità e capacità reattive, quindi possono compromettere lo sviluppo di un attaccamento sicuro nel suo bambino.

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fonte: ansa.it

A livello neurobiologico, recenti studi con risonanza magnetica hanno dimostrato l’impatto del trauma irrisolto sulle risposte del cervello quando la madre vede le immagini del viso triste del proprio bambino. In questo campione, le madri classificate come aventi un trauma irrisolto o una perdita, avevano una ridotta attivazione dell’amigdala, struttura neurale coinvolta nel processo emozionale che è suscettibile a cambiamenti funzionali e strutturali in risposta al trauma. Questa risposta è stata riscontrata solo quando queste madri hanno visto il volto in difficoltà del proprio bambino. Questo può riflettere il disimpegno di madri traumatizzate verso le difficoltà dei loro bambini e può contribuire alla trasmissione intergenerazionale del trauma.

Potrebbe sembrare quasi una banalità pensare che una madre che ha vissuto un trauma, che  non è stato “rielaborato” correttamente, possa poi riportare difficoltà nella propria esperienza genitoriale inficiando l’attaccamento con il figlio, ma dagli studi valutati ciò che emerge è che non è tanto il trauma in sè a causare queste conseguenze dannose, quanto la mancanza di un lavoro di riorganizzazione dello stesso trauma.

Dott.ssa Sara Longari

Bibliografia

Albasi C. Attaccamenti traumatici, De Agostini Scuola Spa- Novara 2006. UTET

Baldari L. Le prime interazioni madre-bambino; Alpes Italia .Roma -2011

Caroviglia G. Teoria della mente, attaccamento disorganizzato, psicopatologia. Carocci Editore. Roma -2005

De Zulueta F. -The treatment of psychological trauma from the perspective of attachment research. Journal of Family Therapy (2006) 28: 334–351

Ensink Karin, Lina Normandin, Mary Target, Peter Fonagy,Stephane Sabourin and Nicolas Berthelot.- “Mentalization in children and mothers in the context of trauma: An initial study of the validity of the Child Reflective Functioning Scale.”- British Journal of Developmental Psychology (2014)

Forcada-Guex M. , Ayala Borghini , Blaise Pierrehumbert , François Ansermet, Carole Muller-Nix.- “Prematurity, maternal posttraumatic stress and consequences on the mother–infant relationship.”. Hearly Human Develompment 87 (2011)

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Costruzione dell’identità sociale e categorizzazione di sé  

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L’attore sociale è colui che entra in contatto con la realtà che lo circonda, se la rappresenta e agisce in modi diversi su di essa, ma allo stesso tempo riflette sulla realtà stessa, rappresentandosi i vari cambiamenti  provocati dall’ incontro con essa e da come si modifica grazie al suo intervento.

Il concetto d’identità riguarda, per un verso, il modo in cui l’individuo considera e interpreta se stesso come membro di determinati gruppi sociali (ad esempio la nazione, la classe sociale, il livello culturale, l’etnia, il genere, la professione), per l’altro, il modo in cui le norme e le regole di quei gruppi consentono a ciascun individuo di pensarsi, muoversi, collocarsi e relazionarsi rispetto a sé stesso e agli altri.

L’importanza della costruzione di una propria identità è data dal suo fungere da schema di base: avere una identità definita, infatti, vuol dire avere punti di riferimento più o meno stabili, essere dotati di una propria storia fatta di esperienze,emozioni e valori.

 

Due sono i processi fondamentali alla base della costruzione dell’identità:

  • Il processo di differenziazione, riscontrabile ad esempio al momento della nascita con l’imposizione del nome, identificando il neonato come singola persona.
  • Il processo di appartenenza, come ad esempio l’appartenenza per nascita (genere, ceto sociale-economico-culturale, ecc) oppure l’appartenenza per scelta (appartenenza a determinati gruppi culturali, religiosi e politici).

Tajfel e Turner cominciarono ad avanzare costrutti teorici sull’identità a partire da metà anni Settanta elaborando la Teoria dell’Identità Sociale (SIT), formulata in contrapposizione alla psicologia sociale nordamericana, la quale vedeva la società come insieme di individui razionali aggregati tra loro e senza distinzione tra individuo e membro di un gruppo. La Teoria dell’identità sociale concettualizza il gruppo come luogo di origine dell’identità sociale: con la dott.ssa Sara Longari, nell’articolo sulla costruzione di pregiudizi e stereotipi ( link ), si è parlato della tendenza spontanea dell’uomo a costituire gruppi, a sentirsene parte ed a distinguere il proprio gruppo di appartenenza (ingroup) da quello di non appartenenza (outgroup), mettendo conseguentemente  in atto dei comportamenti che vanno a favorire il proprio gruppo. Secondo la SIT,  l’identità sociale dell’individuo si costruisce attraverso tre processi funzionalmente collegati:

  • Categorizzazione: l’individuo costruisce “categorie” funzionalmente discriminanti di appartenenza, basate su fattori di vario tipo (per età, genere sessuale, posizione sociale o lavorativa, religione, appartenenza etnica, etc…), tendendo a massimizzare le somiglianze tra i soggetti all’interno della categoria, massimizzando al contempo le differenze con le categorie contrapposte.
  • Identificazione: le varie appartenenze ai diversi gruppi forniscono la base psicologica per la costruzione della propria identità sociale costituita da una gerarchia di appartenenze multiple.
  • Confronto Sociale: l’individuo confronta continuamente il proprio ingroup con l’outgroup di riferimento. Il proprio gruppo viene implicitamente considerato “migliore” rispetto agli “altri”, che vengono metodicamente svalutati o confrontati in chiave critica.

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Tajfel crede che l’identità sia definibile lungo un continuum personale-sociale, nel quale il polo personale comprende l’insieme dei comportamenti e delle credenze che ci creiamo come singoli e il polo sociale le credenze e i comportamenti adottati in quanto appartenenti a determinati gruppi (Serino, 2001).

Più specificatamente, il polo dell’ identità sociale è caratterizzato da credenze e comportamenti che gli individui mettono in pratica proprio perché sono membri di determinati gruppi sociali. Tutto ciò, di conseguenza, comporta il riscontro da parte del soggetto di somiglianze con individui appartenenti allo stesso gruppo sociale, e differenze con altri individui. Detto ciò, l’identità sociale  rimanda alla comunanza, al senso della collettività e  appartenenza ad un determinato gruppo, ma agire solo ed esclusivamente in vista degli scopi del gruppo, conduce l’individuo verso un senso di de-personalizzazione, che è quanto avviene ad esempio in una guerra, in cui l’appartenenza ad un determinato gruppo impone all’individuo stesso di muoversi secondo norme e ideali comuni rischiando di contrastare, a volte, la propria sensibilità.

Il polo dell’identità personale è invece caratterizzato da una particolare attenzione per un’esperienza profonda di riflessione su di sé, sulla propria storia, sulle proprie speranze e progetti a cui si associano linee d’azione fondate su esigenze di  coerenza personale. Si è in relazione con l’altro, pensandosi prima di tutto individualmente, in riferimento al fatto che ogni persona è unica, peculiare ed irripetibile e dunque diversa da tutti gli altri membri del gruppo, dotati di una propria storia personale e di un proprio vissuto, di norme e valori diversi. L’identità personale, dunque, non corrisponde ad una rappresentazione dell’individuo elaborata al di fuori di un rapporto sociale, non percepibile dagli altri, ma al contrario essa si caratterizza prima di tutto per una idea di continuità dell’identità, nonostante le modificazioni ambientali e temporali. Si caratterizza, ancora, per un bisogno di distinguersi dagli altri e dalla capacità di riconoscersi e allo stesso tempo di essere riconosciuto. Ed è proprio tale riconoscimento che permette all’individuo di formarsi una propria identità personale. Sul piano cognitivo la persona interiorizza l’immagine che gli viene rimandata dagli altri, la interpreta, la accetta, la modifica o la rinnega, elaborando attivamente un’autodefinizione.

L’individuo, se si considera in senso sociale, sente la necessità di vivere in relazione con gli altri; quando, invece, si considera in senso personale, mette insieme e riflette sulla propria storia, fatta di ricordi, sentimenti, emozioni, progetti, esclusivamente sua, isolandola da tutto il resto.  (Palmonari, N. Cavazza, M. Rubini, 2002)

Tajfel definisce l’identità come una parte del sé ed utilizza la nozione di identità sociale definendola “ quella parte dell’immagine di sé di un individuo che deriva dalla sua consapevolezza di appartenere ad un gruppo sociale (o più gruppi) unita al valore e al significato emotivo attribuito a tale appartenenza”   ( Tajfel, 1978 ).

Turner sostiene che questa definizione di identità sociale fornita da Tajlef, rafforzi uno degli assunti fondamentali della teoria intergruppi, e cioè che in certi momenti, l’immagine che abbiamo di noi stessi è legata alla nostra appartenenza ad un determinato gruppo sociale. In effetti Tajfel sviluppa tale teoria partendo proprio da una serie di studi che coinvolgono anche i conflitti intergruppi. Nei suoi esperimenti, al fine di individuare le condizioni minime che conducono a fenomeni di discriminazione nei confronti di un outgroup, creò dei “gruppi” privi di una struttura interna, di una storia, di una interazione faccia a faccia tra i componenti, di un sistema di regole. La condotta sottesa al favoritismo nei confronti dell’ingroup è strettamente collegata al processo di categorizzazione, permettendo di  massimizzare le differenze esistenti tra ingroup ed outgroup e rendendo minime, al tempo stesso, le differenze presenti al loro interno. 

In sintesi, in base alla teoria dell’identità sociale elaborata da Tajfel, la suddivisione del mondo sociale in categorie condurrebbe il soggetto a privilegiare le categorie a cui appartiene, principalmente per due motivi: il primo è perché l’essere umano tenderebbe a pensarsi in termini positivi piuttosto che in termini negativi, il secondo è perché parte del concetto di sé deriva dall’appartenenza a gruppi sociali.

Dunque l’identità sociale è fatta innanzitutto di appartenenza ad uno o piu’ gruppi, ma anche di comunanza riguardo alcune caratteristiche con altri individui, collettività nella condivisione con altri e partecipazione alla vita sociale. (Serino, 2001)

L’identità in senso più generale viene a configurarsi come articolato intreccio di aspetti personali e sociali dati dalla unicità delle esperienze e delle appartenenze di un singolo soggetto. Più specificatamente, all’interno del costrutto di identità si combinano una componente cognitiva, una valutativa e una emozionale: la prima riguarda la consapevolezza di appartenere ad un determinato gruppo; la seconda la sua connotazione positiva o negativa; la terza le emozioni verso il gruppo a cui si percepisce di appartenere e verso coloro con i quali si viene a contatto.

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Un’ ulteriore nozione alla base della teoria di Turner e Tajfel riguarda la categorizzazione socialeUn esperimento molto noto è quello di Tajfel & Wilkes (1963), i cui risultati dimostrano come i processi di differenziazione intercategoriale e assimilazione intracategoriale portano alla formazione degli stereotipi, che nell’articolo postato in precedenza, si presentano come opinioni largamente condivise su individui, gruppi, oggetti, luoghi, con la caratteristica di essere schematici, rigidi, e spesso deformanti e svalutativi.

In questo esperimento venivano presentate ai partecipanti linee di lunghezza diversa, etichettate come A e B o prive di etichetta; i soggetti, quando le linee erano etichettate, tendevano a sovrastimare la differenza tra le categorie A e B e l’uniformità al loro interno. Tajfel pone così l’accento sull’importanza del processo di categorizzazione come facilitatore dell’adattamento dell’individuo all’ambiente. L’autore, grazie agli esperimenti compiuti con il “paradigma dei gruppi minimali (gruppo di persone aggregate casualmente), inoltre, ha dimostrato come la semplice categorizzazione di individui in due gruppi secondo un banale criterio, portava questi ultimi a mostrare preferenza per il proprio gruppo e a sottolineare in senso positivo la differenza con l’altro gruppo (Serino, 2001).

Un aspetto importante del processo di categorizzazione sociale implica una distinzione fondamentale tra il gruppo di cui fa parte il sé, ingroup, e gli altri gruppi, outgroup, ovvero tra  un “noi” e un “loro”.

Quando l’identità collettiva risulta saliente, la distinzione tra ingroup e outgroup può avere una forte influenza sulle implicazioni percettive, emotive e cognitive della categorizzazione sociale. In modo particolare, per quanto riguarda la sfera percettiva, quando le persone vanno a comporre gruppi diversi, le reali differenze tra i membri della stessa categoria tendono ad essere percepite in modo ridotto e spesso ignorate nelle prese di decisioni o comportamenti, mentre le differenze tra i gruppi diversi tendono ad essere sovrastimate. Dal punto di vista emotivo, le persone  percepiscono più positivamente i membri dell’ingroup rispetto ai membri dell’outgroup. Infine, per quanto riguarda la sfera cognitiva, l’individuo riesce a mantenere maggiormente in memoria le informazioni riguardanti le somiglianze tra sé e gli altri membri dell’ingroup e le differenze con i membri dell’outgroup, e a livello di comportamento il soggetto tende ad essere più disponibile verso l’ingroup piuttosto che verso l’outgroup.

Si può affermare, dunque, che le somiglianze percepite all’interno del proprio gruppo fungono da base ai processi di discriminazione e identificazione sociale; di conseguenza essa favorisce anche l’innalzamento del livello di autostima del soggetto nel caso in cui ci sia la possibilità di riconoscersi in un gruppo connotato positivamente. Inoltre, la percezione di somiglianza all’interno del proprio gruppo si accresce quando l’identificazione con  lo stesso restituisce un’immagine di sé positiva.

 

Le categorizzazioni di sé non sono altro che rappresentazioni cognitive di sé facenti parte di un sistema gerarchico di classificazione; esse consistono nell’identificarsi con un gruppo sociale o di definire il proprio sé come appartenente ad una determinata collettività. Si possono individuare almeno tre livelli all’interno della categorizzazione di sé importanti per il concetto di sé sociale: il livello sovraordinato del sé come essere umano, basato sulle caratteristiche comuni agli altri membri della specie; il livello intermedio delle categorizzazioni di sé in termini di ingroup-outgroup basate sulla presenza di somiglianze e differenze tra persone come membri di un gruppo piuttosto che di un altro; il livello subordinato delle categorizzazioni di sé personali basate sulle caratteristiche dell’individuo come persona unica. Questi livelli definiscono rispettivamente l’identità umana, sociale e individuale.

Tuttavia occorre ricordare che, a prescindere da questi livelli, ogni persona ha un modo personale di intendere la propria appartenenza alla categoria “essere umano” o ad un dato gruppo sociale; di conseguenza la definizione della categoria di sé, che diventa saliente in un dato momento, deriva dall’interazione tra caratteristiche specifiche della persona e caratteristiche della situazione in cui si trova in quel momento.

 

Dott.ssa Teresa Marrone

 

BIBLIOGRAFIA

Palmonari, N. Cavazza, M. Rubini: Psicologia sociale, Il Mulino(2002).

Serino: Percorsi del sé, Nuovi scenari per la psicologia sociale dell’identità, Carocci editore(2001).

Tajfel, H., Wilkes, A.L. (1963). Classification and quantitative judgement. British Journal of Psychology, 54, 101-114.

Tajfel, H. (1978). The achievement of inter-group differentiation. In H. Tajfel (Ed.), Differentiation between social groups, London: Academic Press.

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Sessualità in gravidanza e nel puerperio: una lettura psicosessuologica

images (1)Recentemente, nella rubrica “Coppia, sessualità e gravidanza” abbiamo rimarcato il ruolo fondamentale che l’attesa di un figlio assume sia nella sfera emozionale – affettiva sia nella sfera sessuale dei neogenitori, i quali sono chiamati a ridefinire la propria identità e a ricontrattare le loro modalità relazionali per aprirsi all’accoglienza del frutto del loro amore. Nell’ultimo articolo, abbiamo trattato delle variazioni della sessualità durante la gravidanza, con il presente articolo che rappresenta la parte conclusiva di questa rubrica, verranno analizzati nel dettaglio sia i vissuti relazionali – affettivi sia gli aspetti sessuologici che caratterizzano i vari trimestri gestazionali e il periodo del post – partum.

La letteratura scientifica, da un punto di vista sessuologico prettamente femminile, riporta che Pregnant woman is about to be sick.il primo trimestre gestazionale è caratterizzato da un’aumentata eccitabilità del sistema neurovegetativo tale da provocare una serie di cambiamenti ormonali i quali determinano un aumento di estrogeni, progesterone e prolattina che possono causare nella donna nausea, vomito, aumento di peso, tensione mammaria, stanchezza e faticabilità ed allo stesso tempo provocare una riduzione del desiderio sessuale e dell’eccitabilità.

contrazioni-700x525Da un punto di vista psicologico, lo status gravidico non sempre viene accettato positivamente dalla donna, anche quando il desiderio di un bambino è determinante all’interno della coppia, il quale genera una serie di preoccupazioni nella neomamma in merito all’ansia del parto e del ruolo materno, ai cambiamenti nel rapporto di coppia, alle modificazioni dell’aspetto fisico e del suo stato di salute, si tratta quindi di un insieme di fattori che agiscono negativamente sul desiderio sessuale. Infine, sebbene una serie di timori e di false credenze di origine socio – culturale non trovano fodamenti medico – scientifici, se non in casi particolari, hanno un peso determinante nella generazione di paure e nell’astensione dai rapporti sessuali poiché purtroppo rimandano l’idea e la necessità di evitare rapporti sessuali durante la gravidanza in quanto possono essere causa di danni fetali, aborto spontaneo, infezioni, emoraggie e parto prematuro (Johnson, 2011).

Contrariamente a quanto accade nel primo trimestre, per la vita sessuale di coppia il secondo trimestre sembra il più favorevole: pexels-photo-219581le donne iniziano a sentirsi meglio, la gravidanza è stata elaborata e il parto è ancora lontano, i disturbi somatici, come le nausee, si sono attenuati e l’umore è stabile. Gli uomini in questo trimestre iniziano a vivere emozionalmente la condizione della partner e ad accettarla, non hanno molte preoccupazioni per la gravidanza, sul parto e sulla salute del bambino. In questo periodo infatti non si registrano cambiamenti negativi nel comportamento sessuale della coppia e i partner possono sentirsi molto vicini (Simonelli, 2002).

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Lo stato di gravidanza crea una condizione psicofisica favorevole ad un arricchimento della sessualità: l’aumento degli ormoni in circolo, la presenza delle endorfine, l’abbassamento della soglia sensoriale, una maggiore irrorazione sanguigna nei genitali, l’aumento di volume e di reattività uterina, sono tutti fattori che consentono di godere profondamente del proprio corpo forse più che in ogni altro momento della vita (Capodieci et al., 1990).

Immagine3Viceversa, durante il terzo trimestre, il desiderio sessuale si riduce notevolmente determinando una diminuzione dell’attività sessuale. In letteratura vi sono diversi fattori fisiologici ed ormonali che possono spiegare questo fenomeno: l’aumento di peso, l’incontinenza da sforzo, le emorroidi, il peso del partner sull’utero durante il rapporto sessuale, la sublussazione della sinfisi pubica e delle articolazioni sacro-iliache. Dunque, con il progredire della gravidanza la durata del rapporto sessuale e la capacità di sperimentare l’orgasmo diminuisce. Il disagio vaginale può diventare più pronunciato come risultato di cambiamenti nella fisiologia vaginale in risposta a cambiamenti ormonali in cui le fibre muscolari del tessuto connettivo diminuiscono a fronte dell’aumento delle dimensioni della parete vaginale che si prepara al parto.  Inoltre, le contrazioni vaginali sono più deboli e gli spasmi del tono muscolare possono verificarsi occasionalmente, ma possono influenzare la risposta orgasmica; per di più la vasocongestione pelvica e la congestione vaginale causano una riduzione della lubrificazione che può essere causa di dispareunia. Ulteriormente, le alterazioni morfologiche della gravidanza possono causare disagio quando vengono assunte certe posizioni sessuali, infatti con l’avanzare della gravidanza a livello coitale la coppia preferisce quelle modalità in cui la donna si trova in posizione sovrastante, di lato o carponi, oppure ci sono coppie che in questo periodo lasciano spazio a pratiche sessuali orali, anali o alla masturbazione (Johnson, 2011).

Infine dopo la nascita, può capitare che uno o entrambi i partner abbiano difficoltà a ritrovarsi come coppia poiché immersi nel nuovo ruolo di genitori. La nascita di un figlio, infatti, rivoluziona la vita a due, mette in discussione certezze, svela lati dell’altro finora ignoti. È un momento intenso di cambiamento e in questo trambusto l’intesa sessuale è messa alla prova. Facilmente rischia di andare in tilt di fronte a pianti notturni, sveglia ogni tre ore per le poppate, tristezza improvvisa e qualche chilo in più dovuto alla gravidanza.  depositphotos_11881525-stock-photo-newborn-baby-crying-in-cotDopo la nascita del bambino capita alla maggior parte delle donne di sentirsi stanche, fuori forma e il sesso diventa l’ultimo dei loro desideri. Nonostante abbiano sempre profondi sentimenti d’amore nei confronti del partner, in genere questo non è un periodo in cui le donne hanno un particolare interesse per la sessualità. In realtà si tratta di una reazione del tutto normale e comune a tutte le donne: la neomamma tende ad essere completamente assorbita dal grande impegno fisico dell’allattamento e della cura del neonato e mentalmente si sente più mamma che donna. Il disinteresse è accresciuto dallo sconvolgimento ormonale post – parto, con un innalzamento del livello di prolattina e una caduta del livello di estrogeni, il che predispone la donna a continui cambiamenti di umore, a depressione, e fisicamente è causa di secchezza vaginale, la quale rende fastidiosi e dolorosi i rapporti sessuali. Inoltre la paura di non piacere e di rimanere nuovamente gravide o di provare dolore durante il coito – soprattutto se si è subita un’episiotomia – inibisce ulteriormente il desiderio sessuale; come reazione il neopapà si sente trascurato e respinto. Sebbene siano molto frequenti casi in cui la donna non avverte il desiderio sessuale, parallelamente gli uomini che lamentano lo stesso problema non sono pochi. Assistendo al parto possono restare colpiti da certi aspetti clinici, dalla sofferenza della propria compagna, da sangue e suture, finendo per provare fatica a riavere rapporti con la propria donna. L’uomo, inoltre, viene volente o nolente, escluso dal naturale attaccamento biologico della donna al bambino. C’è il rischio, in questo caso, che l’uomo diventi geloso del bambino a cui adesso la sua campagna dedica tutto il proprio tempo e resta deluso dall’atteggiamento della donna per la poca considerazione nei suoi confronti.

sesso-dopo-il-parto-da-2-a-6-mesiSuperare questo momento non è difficile se entrambi i partner sono aperti alla comunicazione e alla condivisione e hanno un reciproco desiderio di trovare un compromesso. In genere tutto si risolve in circa tre mesi e la ripresa dell’attività sessuale può avvenire naturalmente. Tale ripresa dell’attività sessuale è comunque molto soggettiva e dipende anche da come veniva vissuta in precedenza la sessualità di coppia (Panzeri et al., 2006).

Johnson (2011) ha evidenziato che la tipologia di parto (naturale o cesareo), l’episiotomia perineale, le disfunzioni del pavimento pelvico e la dispareunia, influiscono sul benessere e sulla funzione sessuale della donna che può persistere fino ad un anno dopo il parto. Da tale studio emerge che il parto cesareo rispetto al parto naturale permette un precoce recupero della funzione sessuale post – partum, in quanto le lesioni del nervo pudendo sono minime, i traumi del pavimento pelvico sono inferiori, le lacerazioni e i dolori dovuti all’episiotomia sono marginali, viceversa le donne che affrontano un parto naturale generalmente presentano un più alto tasso sia di dolore perineale sia di dispareunia nei tre mesi successivi al parto; dunque queste ultime mostrano una diminuzione della soddisfazione sessuale ed una lenta ripresa dell’attività sessuale dopo il parto.

Concludendo, i primi sei mesi dopo il parto possono determinare un profondo impatto sulla qualità della vita sessuale di una donna, poiché il trauma genitale dovuto all’episiotomia, il sanguinamento vaginale, la dispareunia, la presenza di secchezza vaginale a scapito della lubrificazione, le disfunzioni del pavimento pelvico, l’amenorrea indotta dall’allattamento, una percezione distorta della propria immagine che converge verso la diminuzione del senso di attrattività oltre alla paura che il bambino possa svegliarsi, sono tutti fattori  che incidono sulla perdita della libido e provocano anorgasmia e vaginismo causando un forte impatto sulla funzione sessuale di coppia.

66933Si ritiene necessaria un’adeguata informazione alle coppie, le quali devono essere rassicurate dal fatto che la sessualità comprende una vasta gamma di espressione e non deve necessariamente includere un rapporto vaginale. La sessualità non coitale può anche essere espressione di un’intimità emotiva che rafforza la salute e il benessere sessuale di coppia (Johnson, 2011).

Bibliografia

Capodieci, S., Ferraro, I., Dall’Albra, B., Rupolo, G., Baldo, M., & Canu, B. (1990). Gravidanza, maternità, paternità e vita sessuale di coppia. Rivista di sessuologia, 14, 331 – 346

Johnson, C. (2011). Sexual Health during Pregnancy and the Postpartum. Journal of Sexual Medicine, 8, 1267-1284.

Panzeri, M., Donà, M., & Cusinato, M. (2006). La sessualità della coppia nel ciclo di vita familiare. Rivista di Sessuologia, 30 (2), 1 – 7.

Simonelli, C. (2002). Psicologia dello sviluppo sessuale ed affettivo. Roma: Carocci.

 

Dott.ssa Consiglia – Liliana Zagaria

 

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Eccitazione e desiderio femminile: parliamone

la donna di oggi necessita di corrette informazioni per vivere a pieno la sua natura anche dal punto di vista erotico e sessuale.argomento da sempre tabù, vediamo cosa desidera e come si eccita la donna di oggi…

 

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Il modo di vivere la sessualità è naturalmente diverso tra uomo e donna. Tralasciando i luoghi comuni sdoganati sulla questione della superiorità di un genere o dell’altro, possiamo affermare che ci sono delle differenze sia a livello cerebrale, ormonale, biologico ma soprattutto a livello psicosociale tra uomini e donne, e che queste differenze devono essere accettate per  arricchirsi e non per  una inutile lotta per la supremazia dei sessi.  Ovviamente anche dal punto di vista sessuologico queste differenze sono importanti, specialmente se consideriamo  come meta ideale una vita sessuale appagante, per ottenerla è importante conoscere le differenze tra i generi e le caratteristiche anatomiche ed emotive che incrementano la funzionalità di coppia.

Secondo i pionieristici studi di Masters e Johnson  sul comportamento sessuale umano,e il contributo di H. Kaplan,  la risposta agli stimoli sessuali segue un continuum che si suddivide in 5 stadi: desiderio, eccitazione, plateau (apice dell’eccitazione), orgasmo e risoluzione.  E sebbene queste fasi siano condivise tra uomo e donna, nella pratica il loro innesco e la loro successione sono molto diversi.  Si pensi già al fatto che gli uomini hanno erezioni spontanee fisiologiche anche in mancanza di desiderio sessuale, cosa che per le donne invece non succede. Per le donne una corretta intimità è il risultato di un circuito di stimoli sensoriali, neurologici, ormonali ma soprattutto psicosociali e relazionali. 

La fase del desiderio è quindi un punto di partenza essenziale per la donna, che mette in moto il meccanismo di risposta sessuale e spesso sancisce la possibilità di un rapporto sessuale consumato o mancato. Esso può essere attivato da stimoli endogeni (fantasie, sogni, pulsioni) o esogeni (immagini, stimoli sensoriali) ed è fortemente soggetto ad una serie di fattori: ormonali (gli androgeni sono molto importanti per il desiderio sessuale femminile), relazionali (conflitti coniugali, insoddisfazione di coppia, problemi sessuali del compagno, scarsa empatia e sensibilità del compagno, ecc…), personali o culturali (stress, depressione, rigida disciplina, tabù religiosi) possono influire negativamente sul desiderio erotico femminile e quindi compromettere l’intimità sessuale della donna nella sua totalità, a tal punto da necessitare di una specifica diagnosi medica, qualora il calo o la scomparsa del desiderio persistessero da almeno 6 mesi, influendo significativamente sulla vita della donna che ne è affetta.  

Tuttavia spesso arrivare ad una diagnosi è una cosa complicata, poiché le donne fino a non molti anni fa erano considerate prive di quelle fantasie e pulsioni che invece sembravano esclusive del mondo maschile, tanto che le donne che non soffocavano la loro libido venivano giudicate e svilite (in molti casi succede ancora oggi). La sessualità della donna così oscura e misteriosa fino a pochi decenni fa (ricordiamo che gli studi di Kinsey e Masters e Johnson sulla sessualità anche femminile furono aspramente criticati dal mondo scientifico degli anni 70) si riduceva alla soddisfazione dell’uomo, alla procreazione della prole, inculcando la verginità e la castità come valori da tramandare e conservare.

Per molte donne la condizione indispensabile per la nascita del desiderio è instaurare una certa intimità con il partner, mentre gli uomini partono dal comportamento sessuale per accedere all’intimità (Consolo, 2017).

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La fase della risposta sessuale successiva al desiderio è quindi l’eccitazione che pone una serie di cambiamenti fisiologici che predispongono l’organismo al coito: questi cambiamenti riguardano l’accelerazione del battito cardiaco, del flusso sanguigno che riempie i tessuti degli organi genitali, l’aumento della lubrificazione vaginale per permettere una penetrazione agevole ed è il sintomo più evidente dello stato di eccitazione femminile. Questi mutamenti corporei hanno sia finalità riproduttive che di piacere ( ricordiamo che il clitoride femminile è l’unico organo che ha la sola funzione di provocare piacere sessuale, ed ha più fibre nervose di qualsiasi altra parte del corpo o del pene maschile), ma sovente la scarsa conoscenza dell’anatomia femminile e del ciclo della risposta sessuale causa confusione in alcune donne che confondono l’incremento del benessere sessuale o la lubrificazione che si ottiene dalla fase di eccitazione con l’orgasmo vero e proprio ( quindi in realtà molte donne potrebbero non aver mai raggiunto l’acme sessuale, ma esserne comunque convinte).

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 Anche in questa fase molte possono essere le disfunzionalità che compromettono questa fase della risposta sessuale: una scarsa stimolazione, problematiche fisiologiche o endocrine che causano secchezza vaginale, terapie farmacologiche, patologie pelviche o genitali, o inibizione psicologica. Come abbiamo già visto in questo articolo, un dolore coitale può compromettere la sana funzionalità sessuale delle donne. Spesso la causa è di natura organica, ma da attenti approfondimenti di frequente  si riscontra che il dolore può essere causato da una mancanza di desiderio o eccitazione che sono premesse importantissime per la lubrificazione vaginale come abbiamo detto;  I. Consolo (2017)afferma che ciò che crea eccitazione nella donna è la sintonia psicologica e fisica che si può stabilire con il partner (occasionale o fisso che sia),ma anche un’adeguata conoscenza del proprio corpo, un’esplorazione visiva e tattile, la pratica dell’autoerotismo possono migliorare non solo la consapevolezza di noi stesse, ma anche la buona riuscita dell’intimità di coppia, che non è e non deve essere appannaggio esclusivo dell’uomo.

Dott.ssa Sara Longari

Bibliografia

Consolo I., Il piacere femminile. Giunti, Firenze.2017

Masters W.. e Johnson V. , L’atto sessuale nell’uomo e nella donna. Feltrinelli Milano, 1967

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