Attaccamento infantile e scelta del partner

6c6_e69ab8c1_650f_38aa_abda_3e05ab4abaa4_1

Sin dalla nascita, noi sviluppiamo e creiamo legami di attaccamento che rappresentano i nostri porti sicuri. La coppia genitoriale è la prima e fondamentale figura di riferimento, che ci guiderà verso la conoscenza e il raggiungimento dell’autonomia. Tanto più l’ancoraggio sarà solido, rassicurante e costante, tanto più ci si sentirà al sicuro e protetti, liberi di aprirsi all’esplorazione e alla conoscenza, “pronti ad allontanarci dal “porto” per avanzare in mare aperto, senza utilizzare boe di salvataggio. Al contrario, più la base è instabile, più saremo portati a utilizzare boe artificiali.” (Poudat, 2006)

Nel processo di attaccamento, il bambino crea modelli operativi interni, registrando in memoria non solo le relazioni ma anche la sfera emotiva che accompagna queste durante la crescita, modificandosi nel corso di legami futuri ma mantenendo sempre lo stampo dato dalla relazione con le figure importanti. Capire che un modello di attaccamento è disfunzionale o patologico è molto difficile, perchè comporta la revisione e la modifica di pilastri che hanno accompagnato l’individuo sin dalla tenera età, dandogli la possibilità di conoscere un determinato modo di relazionarsi, considerandolo adattivo.

L’attaccamento infantile ha da sempre destato particolare interesse tanto da spingere diverse branche della psicologia e non solo ad approfondire l’argomento. Uno dei maggiori sviluppi nell’ambito dell’attaccamento infantile è stato offerto dallo psicoanalista britanico John Bowlby, la cui teoria è stata in seguito ampliata da una sua allieva, la psicologa canadese Mary Ainsworth.

Gli stili di attaccamento

Secondo Bowlby  l’attaccamento è un bisogno innato e fondamentale legato alla ricerca di sicurezza e benessere, e la sua assenza provoca importanti conseguenze sullo sviluppo del sistema affettivo e cognitivo. Bowlby (1989) ha individuato tre principali stili di attaccamento nella diade madre-bambino:

  • STILE SICURO:  il bambino si sente libero di andare alla ricerca di quello che ancora non conosce, di esplorare in tranquillità l’ambiente perchè vede la madre come un porto sicuro, dal quale può allontanarsi e fare ritorno. La madre si mostra apprensiva e capace di rispondere ai bisogni del piccolo, dando sollievo ai suoi malesseri, evitando di anticipare i bisogni ma aspettando che questi si sviluppino.
  • STILE INSICURO/EVITANTE: il bambino è scettico e non si fida della figura di riferimento, al punto da reputarla inefficace e inefficiente nella realizzazione dei suoi bisogni. Sviluppa insicurezza e sfiducia dei confronti degli altri, sente di non essere amato e incrementa la tendenza all’evitamento. La madre non è in grado di rispondere in maniera tempestiva ai bisogni del bambino, si occupa solo del soddisfacimento dei bisogni primari trascurando quelli emotivi, creandogli mancanze che si trasformano in paura di essere abbandonato.
  • STILE ANSIOSO/AMBIVALENTE: Questo stile di attaccamento si presenta come discontinuo e instabile. La madre alterna periodi in cui è positivamente presente a periodi in cui è perennemente assente, alternando le fasi in maniera brusca. In questo modo il bambino non riesce a sviluppare il giusto grado di sicurezza e attaccamento, ma al contrario svilupperà insicurezza nell’esplorazione dove predominerà  l’ ansia di abbandono.

Ad esclusione dello stile di attaccamento sicuro, negli altri predominano due dimensioni: l’ansia di abbandono, di essere respinti e non apprezzati e l’evitamento, l’essere più o meno coinvolti nella relazione e mantenere una certa distanza emotiva per non farsi coinvolgere eccessivamente.

Crescendo i legami di attaccamento subiranno qualche modifica, nel senso che non dipenderanno esclusivamente dalla vicinanza fisica con la madre, ma anche e soprattutto da sentimenti quali fiducia, sicurezza, autostima, che il bambino avrà interiorizzato nella relazione con l’altro. 

Mary Ainsworth, sulla scia di Bowlby, nel 1969 mise a punto una speciale tecnica di osservazione chiamata Strange Situation per studiare l’interazione tra i sistemi di attaccamento e di esplorazione del territorio in situazioni di stress. Individuò i seguenti stili di attaccamento: SICURO, INSICURO-EVITANTE, INSICURO- AMBIVALENTE che corrispondono rispettivamente all’attaccamento Sicuro, insicuro-evitante e ansioso – ambivalente individuati da Bowlby. In tutti e tre gli stili di attaccamento esplorati, non si evidenziano comportamenti patologici e il bambino dimostra di organizzare il suo comportamento adattandolo al contesto familiare, ma è comunque innegabile che lo stile di attaccamento sicuro sia quello più funzionale nello sviluppo del bambino, favorendo la nascita di un equilibrio e adattamento, che lo accompagneranno nell’esplorazione e nel raggiungimento dell’autonomia. A questi tre stili di attaccamento, successivamente è stato aggiunto un altro, ritenuto patologico: l’ATTACCAMENTO DISORGANIZZATO/DISORIENTATO. Questo modello è stato individuato nello specifico da Mary Main e Juduth Solomon intorno al 1980 per individuare uno stile di attaccamento carente e mancante di strategie di comportamento. Si ha l’assenza di un pattern d’attaccamento che sia orientato ad un fine, presentando comportamenti contraddittori e non finalizzati come essere immobili, coprirsi gli occhi alla vista della figura della madre, rigidità e iperallerta.

15836

Quello che il genitore apprenderà nell’ infanzia, lo riproporrà nel legame con i propri figli. Lo stile di attaccamento, però, influenza anche la scelta del partner e i futuri legami affettivi in generale. 

Riprendendo quanto illustrato da Pierrehumbert e Miljkovitch in una tabella sulla relazione esistente tra attaccamento infantile, atteggiamento in età adulta e scelta del partner, Cesare Guerreschi (2011) afferma che in base al modello di attaccamento sperimentato, la persona sarà portata a scegliere un certo tipo di partner e, di conseguenza, una certa relazione sentimentale. In base a ciò ne consegue che:

  • Una persona con ATTACCAMENTO SICURO, non mostrando particolare timore ad affrontare l’abbandono e non manifestando dipendenza dagli altri, sarà in grado di costruire una relazione stabile, con un partner sicuro e autonomo. Accetta il passato, positivo o negativo ed ha fiducia in sè e negli altri. 
  • Una persona con ATTACCAMENTO EVITANTE, avendo difficoltà nel dare fiducia al prossimo, tenderà a cambiare spesso partner per evitare il coinvolgimento eccessivo nella storia. Si mostra quasi indifferente alle esperienze relazionali ed ha fiducia in sé, ma non negli altri. La paura e il timore di essere invaso eccessivamente lo porteranno a scegliere un partner evitante.
  • La persona con ATTACCAMENTO AMBIVALENTE, infine, manifesta forte paura nei confronti di un possibile abbandono, non nutre abbastanza fiducia in se stessa e teme di  non essere amata abbastanza. La risposta a ciò si concretizzerà in una fusione totale con il partner, evitando in tutti i modi la separazione, con il rischio che l’altro fugga  di fronte ad un coinvolgimento morboso.

E’ bene ribadire, però, che non sempre si va alla ricerca di un partner dal cui legame possa nascere una relazione simile a quella genitoriale. Questo è quello che succede nella maggior parte dei casi, ma può anche succedere che, al contrario, si sviluppi la tendenza a trovare un compagno o una compagna con cui costruire una relazione opposta a quella genitoriale. In altri casi, ancora, si costruirà un legame in cui si avrà la coesistenza di entrambe le tendenze, in questo caso la relazione della coppia per alcuni versi ricorderà il modello genitoriale, per altri richiamerà uno tendenzialmente opposto. 

Concludendo, gli schemi cognitivi sperimentati durante l’infanzia influenzano la costruzione dei legami in età adulta, ricercando relazioni che vadano a confermare ciò che è stato sperimentato, che si conosce e di cui si ha una determinata aspettativa. Confermando lo schema mentale, per esempio, una persona che non si fida del prossimo ed è convinta di non poter meritare amore, tenderà a scegliere un partner in grado di soddisfare tale aspettativa, una persona di cui non si può fidare e che non manifesta sentimenti di amore. Però, può anche succedere di uscire dagli schemi e trarre beneficio: questo è quello che accade quando, ad esempio, una persona con attaccamento sicuro incontra un partner con attaccamento insicuro. In questo binomio all’apparenza instabile e conflittuale, lo stile sicuro può offrire nuovi modi di concepire e vivere la relazione, stabilità e certezza, cercando di contenere l’ansia di abbandono o di evitamento dello stile insicuro.  

Il viaggio verso la conoscenza profonda di se stessi non è semplice, ma è importante prendere consapevolezza, anche attraverso l’utilizzo di un esperto, di come funzioniamo, cosa ci spinge verso certe scelte piuttosto che altre, conoscere e comprendere i processi di cui non si è consapevoli e darsi la possibilità di guardare gli eventi con nuove lenti.

Dott.ssa Teresa Marrone

 

BIBLIOGRAFIA

Bowlby, J. (1989). Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento. Milano: Raffaello Cortina Editore.

Guerreschi, C. (2011). La dipendenza affettiva. Ma si può morire d’amore? Milano: Franco Angeli Edizioni.

Poudat, F.X. (2006). La dipendenza amorosa. Quando l’amore e il sesso diventano una droga. Roma: Castelvecchi editore.

 

Ti è piaciuto questo articolo? CONDIVIDILO!

Facci sapere cosa ne pensi lasciandoci un commento o scrivendoci, il tuo contributo arricchisce i contenuti, grazie!

 

Variazioni della sessualità di coppia nelle diverse fasi di transizione alla genitorialità

sesso-in-gravidanza

Da qualche settimana abbiamo introdotto la tematica della transizione alla genitorialità prendendo in esame sia l’aspetto psicologico sia quello emotivo – relazionale di una coppia in dolce attesa. Con il presente articolo procediamo all’analisi di questa tematica soffermandoci maggiormente sui cambiamenti fisici e psicosociali che possono influenzare sia la sua sessualità sia il rapporto sessuale di coppia durante la gravidanza.

Numerose ricerche evidenziano una diminuzione della funzione sessuale sia durante la gravidanza sia dopo il parto, specificamente le donne riferiscono un declino delle loro funzioni sessuali durante la gravidanza, compresi la perdita di interesse per la sessualità; il calo del desiderio; la frequenza dei rapporti sessuali; il godimento sessuale; l’attività coitale; l’orgasmo e la soddisfazione sessuale (Yıldız, 2015; Galązka, et al., 2015; Johnson, 2011; Coluccini, 2012; Pauleta, et al., 2010; Chang, et al., 2011; Bitzer, et al., 2000).

vero-e-falsoLa letteratura in materia di sessualità e gravidanza prende in esame le abitudini e gli stili di vita delle coppie in attesa di un neonato ma evidenzia che la sessualità in gravidanza viene trascurata anche sulla base di pregiudizi e false credenze presenti all’interno dell’immaginario sessuale delle coppie in “dolce attesa” (Panzeri et al., 2006), tra i quali i più ricorrenti risultano i seguenti:

  • Le donne gravide perdono interesse per il sesso;
  • Gli uomini non mostrano interesse sessuale per le donne incinte;
  • Le donne gravide non riescono ad avere orgasmi;
  • Il rapporto sessuale praticato nei primi mesi di gravidanza può essere pericoloso, abortivo;
  • Lo sperma potrà arrivare fino al bambino che lo userà come nutrimento;
  • I bambini nel ventre materno possono sentire ciò che avviene durante il rapporto sessuale;
  • Il peso dell’uomo e le sue spinte possono danneggiare il bambino.

1103_falsi mitiCiò che emerge dagli studi in materia rivela  che nella maggior parte delle donne vi è una diminuzione del desiderio e della soddisfazione sessuale nel primo trimestre, sia per il cattivo stato fisico (nausea, astenia e sonnolenza) sia per il timore di ledere il feto durante il coito ma anche per la difficoltà psicologica di integrare l’immagine del figlio che viene a modificare un equilibrio acquisito all’interno della coppia. Durante il secondo trimestre l’80% delle donne menzionano un miglioramento della vita sessuale in tutti i parametri: desiderio, frequenza, soddisfazione. Nel terzo trimestre il 75% delle donne segnala una riduzione della vita sessuale dovuta ai consigli medici e alle diverse difficoltà presenti al termine della gravidanza (pienezza addominale, dolori lombari e fatica). In definitiva si osserva una modificazione in senso negativo sia del desiderio sia dell’ eccitazione, dell’ orgasmo e della soddisfazione; inoltre la frequenza diminuisce marcatamente nel passaggio dal secondo al terzo trimestre (Panzeri et al. , 2006) e persiste anche nei 3 – 6 mesi successivi al parto (Johnson, 2011).

imagesIn letteratura vi sono studi che testimoniano quanto la qualità della funzione sessuale di coppia in periodi precedenti alla gravidanza possa incidere più o meno positivamente sulla funzione sessuale di coppia durante la gravidanza e nel post-partum. Specificamente Yıldız (2015) ha condotto uno studio prospettico con 59 donne gravide afferenti all’unità prenatale del Research Hospital di Istanbul, le quali hanno volontariamente deciso di partecipare alla ricerca che le ha coinvolte in diversi momenti: dalla ottava settimana di gravidanza a sei mesi dopo il parto. Alle partecipanti è stato sommininstrato il Female Sexual Function Index (FSFI), un questionario che valuta sei domini della funzione sessuale femminile: desiderio, eccitazione, lubrificazione, orgasmo, soddisfazione e dolore; in cinque momenti differenti: ante – partum, primo, secondo e terzo trimestre di gravidanza e post – partum. Da questo studio è emerso che sebbene vi sia una riduzione della funzione sessuale femminile durante la gravidanza e nel post – partum, vi è una correlazione lineare con la qualità della funzione sessuale delle donne riferita da queste ultime nel periodo ante – partum, in altre parole, prima, durante e dopo la gravidanza, la funzione sessuale continua nella stessa direzione malgrado la sua riduzione, pertanto le donne che presentano disfunzioni nel periodo precedente alla gravidanza continuano a sperimentarle sia durante che dopo la gravidanza (Yıldız, 2015).

Concludendo, la qualità della sessualità di una coppia in periodi usuali gioca un ruolo fondamentale nel mantenimento della sessualità durante la gravidanza e nel post – partum ed allo stesso tempo rappresenta un fattore protettivo della sessualità nei suddetti momenti.

Immagine3

Bisogna puntualizzare che non esistono particolari controindicazioni al sesso in gravidanza, a parte alcuni motivi di ordine medico come gestosi o minaccia d’aborto, anzi proprio in questo periodo, la coppia può scoprire che i rapporti sessuali possono essere più soddisfacenti che mai. E qualora il rapporto coitale divenisse quasi impossibile da realizzare a causa di impedimenti fisiologici, è utile per una coppia lasciare spazio a tutte quelle manifestazioni intime che permettono di mantenere un livello di comunicazione anche corporea che farà da buona premessa alla ripresa della sessualità dopo il parto. Dunque, la coppia dovrà sempre tenere aperto un canale di comunicazione sulla relazione sessuale e provare a soddisfare anche in altri modi i propri bisogni di intimità sperimentando nuove forme di piacere per mezzo di baci, coccole, carezze, masturbazione, sesso orale o anale che permettono di prendersi l’uno cura dell’altra. Ciò consentirà, tra l’altro, di creare anche per il nascituro un clima di armonia nella coppia del quale potrà beneficiare alla sua venuta al mondo.

Bibliografia

Bitzer, J., & Alder, J. (2000). Sexuality during Pregnancy and the Postpartum Period. Journal of Sex Education and Therapy, 25 (1), 49 – 58.

Chang, S., Chen, K., Lin, H., & Yu, H. (2011). Comparison of Overall Sexual Function, Sexual Intercourse/Activity, Sexual Satisfaction, and Sexual Desire During the Three Trimesters of Pregnancy and Assessment of Their Determinants. Journal of Sexual Medicine, 8, 2859–2867.

Coluccini, F. (2012). La sessualità in gravidanza: un progetto di educazione sessuale per coppie in attesa. Manoscritto non pubblicato

Galązka, I., Drosdzol-Cop, A., Naworska, B., Czajkowska, M., & Skrzypulec-Plinta, V. (2015). Changes in the Sexual Function During Pregnancy. The Journal of Sexual Medicine, 12, 445 – 454.

Johnson, C. (2011). Sexual Health during Pregnancy and the Postpartum. Journal of Sexual Medicine, 8, 1267-1284.

Panzeri, M., Donà, M., & Cusinato, M. (2006). La sessualità della coppia nel ciclo di vita familiare. Rivista di Sessuologia, 30 (2), 1 – 7.

Pauleta, J., Pereira, N., & Graça, L. (2010). Sexuality During Pregnancy. Journal of Sexual Medicine, 7, 136 – 142.

Yıldız, H. (2015). The Relation Between Prepregnancy Sexuality and Sexual Function During Pregnancy and the Postpartum Period: A Prospective Study. Journal of Sex & Marital Therapy, 41 (1), 49–59.

Dr.ssa Consiglia – Liliana Zagaria

 

Ti è piaciuto questo articolo? CONDIVIDILO!

Facci sapere cosa ne pensi lasciandoci un commento o scrivendoci, il tuo contributo arricchisce i contenuti, grazie!

 

 

La paura del “diverso” : come nascono i pregiudizi e gli stereotipi

Stress-da-discriminazione

Quando si parla di pregiudizio nel linguaggio comune si fa riferimento ad un’accezione di tipo negativo, come un’antipatia  verso singole persone, gruppi o minoranze. In realtà il pregiudizio è un tipo di giudizio formulato “a priori”, cioè prima della conoscenza diretta e può essere sia negativo che positivo.  In psicologia sociale la definizione condivisa di pregiudizio è appunto un’antipatia o un atteggiamento sociale denigratorio verso particolari gruppi, che viene esteso in maniera indiscriminata per tutti gli appartenenti ad essi (Voci, Pagotto, 2010).  Ovviamente l’idea socialmente condivisa è che questo sentimento sia deprecabile, tuttavia gli studiosi psicosociali hanno sottolineato che il pregiudizio è un prodotto del normale funzionamento della mente umana. Questi meccanismi mentali sono di natura cognitiva e motivazionale. Le basi cognitive del pregiudizio riguardano gli schemi mentali, la categorizzazione ed il ruolo di sé.  Gli schemi rispondono ad un sistema di economicità del cervello, ossia ogni stimolo o informazione registrata diventa uno schema che torna saliente quando si presenta un altro stimolo simile; quando gli schemi si riferiscono a gruppi di persone prendono il nome di stereotipo.  Lo stereotipo è una semplificazione della realtà tramite rappresentazioni mentali che raggruppano concetti in base a fattori che li accomunano (ad es: i tedeschi sono tutti biondi), tralasciando quelli che invece li differenziano.  Quindi potremmo dire che lo stereotipo è l’effetto collaterale del normale processo di categorizzazione, secondo il quale la complessità dell’ambiente viene ridotta associando stimoli simili nello stesso insieme categoriale.  Naturalmente il processo di categorizzazione riguarda anche il Sé: la rappresentazione cognitiva di sé stessi tramite la quale delimitiamo confini tra noi stessi e gli altri.  Il Sé comprende anche il concetto di identità sociale, coniato dal celebre psicologo sociale Tajfel, che riguarda il sentimento di appartenere ad un gruppo sociale detto ingroup (noi) diverso da un altro outgroup (loro). È facile intuire che il risultato immediato di questo processo è la preferenza per l’ingroup, che si traduce in stereotipi negativi e pregiudizi a svantaggio dell’outgroup.  Questo meccanismo basilare è dimostrato da Tajfel creando in laboratorio gruppi di partecipanti divisi in base alla preferenza di quadri di Klimt o Kandiskij: già in queste condizioni artificiose, che non previdero interazioni o conoscenze tra i partecipanti, si presentarono forme di discriminazione tra i due gruppi, dimostrando come la categorizzazione sia alla base della nascita dei pregiudizi.

 

La distinzione tra ingroup e outgroup è quindi importante perché fornisce informazioni sui comportamenti e sul mondo sociale, è fonte di sostegno emotivo e materiale e definisce la propria identità sociale. Naturalmente i fattori che determineranno quale categoria verrà usata in una determinata situazione, dipenderanno dal contesto: ognuno di noi è immerso in un vasto numero di realtà gruppali, come la famiglia, il gruppo religioso, quello scolastico, quello lavorativo, quello politico, con finalità norme e relazioni differenti al suo interno. Ma il minimo comune denominatore sarà la categorizzazione di sé che in quel momento renderà saliente un gruppo piuttosto che un altro.  Quindi se due individui sono membri dello stesso gruppo politico, condivideranno pensieri, emozioni, appartenenza e saranno separati dall’outgroup di cui fanno parte persone di fazioni politiche opposte. Ma se diventa saliente la categoria “genere sessuale”, l’assetto ingroup e outgroup cambia e si troveranno a far parte dello stesso gruppo le donne da una parte e gli uomini dall’altra giudicandosi di nuovo rispettivamente ingroup e outgroup.

kvinder-vs-mænd-clipart-vector_csp31636963

Inoltre è interessante la percezione intergruppo sull’omogeneità dello stesso: i membri degli outgroup sono percepiti come maggiormente omogenei rispetto a quelli ingroup   (“loro sono tutti uguali mentre noi tutti diversi”). La percezione di omogeneità ovviamente è più attribuita all’outgroup poiché si parte dal presupposto che i membri dello stesso gruppo abbiano maggiori rapporti tra loro, si conoscano meglio e quindi avranno una rappresentazione più differenziata e complessa dei propri membri rispetto a quelli outgroup ( ad es: non vi è capitato di pensare che i cinesi si assomiglino tutti tra loro, di fare fatica a distinguerli e di percepirli tutti uguali? Eppure la popolazione cinese è una delle più numerose della terra, quindi è molto più probabile che ci sia ampia varietà di individui, tratti e caratteristiche che la contraddistinguano) . Inoltre all’interno del gruppo è compreso il proprio Sé, quindi l’identificazione con l’ingroup porta la naturale preferenza per esso e  il giudizio positivo per rafforzare la propria autostima. L’appartenenza ad un gruppo definisce una parte del sé, l’identità sociale, quindi una persona potrebbe fare attribuzioni interne e sentirsi addosso tutto il peso delle discriminazioni per il proprio ingroup, sperimentando dannose conseguenze sul proprio benessere. Questa condizione di sofferenza però può creare all’interno del gruppo discriminato un clima solidale, di sostegno reciproco e di identificazione sociale maggiore, stimolandone i membri a unirsi, attraverso movimenti, manifestazioni e attività per modificare la situazione di sofferenza.  Quindi se come dicono gli studi, si tende maggiormente a favorire il proprio gruppo, piuttosto che denigrare l’outgroup, come mai si riscontra sempre più spesso un accanimento discriminatorio nei confronti di altri gruppi minoritari ( migranti, gruppi politici o religiosi, ecc..)?

Molti studi hanno evidenziato che la distanza tra le culture, o semplicemente tra due gruppi diversi, è dovuta all’ansia che sperimentano i propri membri in una situazione di interazione; ansia dovuta alla non conoscenza dell’altro o alla sensazione di minaccia del “diverso e sconosciuto”. L’ansia può essere vissuta sia tra i gruppi che devono entrare in relazione tra loro, sia tra i gruppi discriminati che sperimentano di conseguenza una peggiore performance e la conferma dello stereotipo negativo.  Gli studiosi hanno dimostrato come l’assunzione di prospettiva e l’empatia abbiano un forte potenziale sull’avvicinare le persone e quindi possano risultare molto efficaci nel ridurre il pregiudizio. questo accade perché la prospettiva di un’altra persona ci consente di capirne pensieri ed emozioni: l’atto di “mettersi nei suoi panni” è uno strumento per comprenderne gli atteggiamenti e se una persona si trova in una situazione di disagio o sofferenza, può portarci a reagire in modo compassionevole e provare empatia.

“L’empatia viene sentita come la comprensione dell’altro che si concretizza immergendosi nella sua soggettività senza sconfinare nell’identificazione.”

Carl Rogers

Assumere la prospettiva di un’altra persona, specialmente se si tratta di gruppi discriminati, può essere un’efficace strategia per migliorare le relazioni integruppi perchè porta una riduzione di sentimenti negativi e l’attuazione di comportamenti di aiuto (Voci,Pagotto. 2010). Essendo quindi l’empatia una risposta emotiva che fa leva sui sentimenti delle persone, può agire direttamente sulla componente affettiva del pregiudizio, riducendolo.  Ovviamente questo non è sufficiente, poichè se ascoltare la storia di un gruppo vittima di pregiudizio, produce una risposta emotiva che riduce il livello di ansia, tale risposta potrebbe essere indirizzata solo verso il membro dell’outgroup di cui si conosce la storia e non estenderlo a tutti i membri, poichè non è giudicato rappresentativo dell’intero gruppo.

Per questo lo psicologo Gordon W. Allport ( 1897-1967) era convinto che il pregiudizio fosse il risultato di una scarsa conoscenza tra i gruppi, e quindi si poteva ovviare attuando programmi di integrazione basati sul contatto.

Il contatto concepito da Allport aveva 4 precondizioni indispensabili per la riuscita: la natura cooperativa delle interazioni, la presenza di scopi comuni, l’interazione tra i gruppi di simile status e la presenza di un sostegno istituzionale. Il corpo di questa ipotesi tuttavia si svolge su un dibattito  in vigore ancora oggi : è emerso che quando le 4 precondizioni vengono rispettate, vi è un’effettiva riduzione del pregiudizio, ma vi sono anche casi in cui gli altri livelli di pregiudizio impediscono che vi sia il contatto.

Per esigenze di brevità e per la complessità di questo argomento, in questa sede è impossibile dare un’ampia lettura degli studi, degli esperimenti e dei risultati, e lungi da chi scrive pensare di ridurre tutto a situazioni causa-effetto quando si parla della varietà umana. Tuttavia è nostro interesse sottolineare come spesso, la paura del diverso sia solo il risultato della non conoscenza, e ciò che non si conosce spaventa. I fatti di cronaca sono pieni di episodi di violenza, sui social dilagano atteggiamenti negativi e discriminanti verso le minoranze più disparate, e spesso anche attività ludiche come la fede calcistica si trasformano in episodi di violenza. Per questo, potrebbe essere utile, come suggeriscono Voci e Pagotto, mostrare alle persone attraverso i mass media o in specifici programmi scolastici che nelle società sono presenti molteplici ingroup incrociati tra loro e quindi che la dicotomia “noi -loro” è mutevole e instabile e non può essere la base per una percezione attendibile della realtà.  E’ auspicabile considerare la diversità come un concetto di ricchezza comune e non come handicap.

 

Dott.ssa Sara Longari

 

Bibliografia

Allport, G. W. The nature of prejudice. New York: Addison-Wesley, 1954.

Tajfel, H. (1981)- Gruppi umani e categorie sociali. Bologna: Il Mulino, 1995.

Voci-Pagotto – Il pregiudizio, cosa è e come si riduce. Bari: Ed. Laterza, 2010

 

Ti è piaciuto questo articolo? CONDIVIDILO!

Facci sapere cosa ne pensi lasciandoci un commento o scrivendoci, il tuo contributo arricchisce i contenuti, grazie!

La Dipendenza Affettiva: dal normale bisogno d’amore, all’attaccamento morboso e vitale alla persona amata.

cuore-in-gabbia

L’amore, tematica trattata nel seguente articolo (link), è un bisogno innato, insito nell’uomo desideroso di vicinanza, non solo fisica e sessuale, nei confronti della persona amata. Non viene inteso solo in relazione all’amore per il partner, ma viene esteso a quello che si può provare per i genitori, i nipoti, fratelli e sorelle, amici, Dio.

Purtroppo, può capitare di sentire un irrefrenabile bisogno di diventare un tutt’ uno con l’altro, di entrare in simbiosi e fondersi. Quando ciò avviene si parla di dipendenza affettiva, conosciuta anche come Love Addiction. Il termine dipendenza non sempre denota una condizione negativa. Tante volte si utilizza questo termine per indicare una condizione psicologica naturale, il bisogno di poter contare sulla presenza dell’altro, come ad esempio un bambino che necessita della madre, in cerca di sicurezza e stabilità. Crescendo, si sente l’esigenza di legarsi a qualcuno e condividere momenti di vita senza sfociare in una dipendenza patologica. Quando, invece, questo non accade, si instaura un legame che, più che soddisfare un bisogno naturale, assume i caratteri disfunzionali di una costrizione, del bisogno assoluto dell’altro. Si dipende in tutto e per tutto da quest’ultimo, senza il quale si ha la sensazione di una totale perdita di controllo e, pur di non perdere la sua presenza vitale, si è disposti a tutto, pure all’annullamento della propria esistenza in quanto persona unica con desideri e bisogni peculiari (Guerreschi, 2011).

Secondo Peele e Brodsky (1974), quello che essenzialmente è il meccanismo scatenante della dipendenza è l’impoverimento spirituale ed affettivo. Si va incontro a sentimenti che portano il soggetto a sentirsi annullato e vuoto. Ciò è collegato al fatto che l’esistenza umana è da sempre dominata dalla paura di solitudine e abbandono. Questi sentimenti, poi, vengono contestualizzati in un quadro più generale: l’alienazione umana. Oggi viviamo in una società in cui l’innovazione tecnologica tra i suoi contro mostra una riduzione dei contatti diretti, di nuove forme di comunicazione, di immagini corporee perfette, tanto da sembrare finte e costruite a tavolino, ai limiti del reale. Tutto questo, e tanto altro, concorre a delineare un quadro al cui interno predominano insicurezza, disperazione e soddisfacimento dei bisogni nel qui ed ora. In questo caso si possono verificare due tendenze opposte. La prima consiste nel non legarsi eccessivamente in modo tale da preservare la propria incolumità fisica e psicologica: ci si lega con moderazione, mantenendo sempre un atteggiamento distaccato e, se la relazione diventa particolarmente carica a livello emotivo, si tronca o ci si allontana sempre più per evitare di soffrire, anche se inevitabilmente si finisce per soffrire il doppio perché nasce il senso di fallimento per l’incapacità di riuscire a stabilire relazioni durature e solide. La seconda tendenza, invece, opposta alla prima, consiste nel legarsi eccessivamente all’altra persona, entrando in un rapporto simbiotico e patologico, dove i propri bisogni vengono annullati e quello che prevale è l’incapacità di dire di no, mostrandosi sempre a disposizione del prossimo. Fondamentalmente il senso della vita stessa risiede nella figura verso cui si è dipendenti.

Averla+senza+possederla.La dipendenza affettiva è caratterizzata dalla completa dedizione all’altro, chiusura nel proprio nido d’amore e totale disinteresse per tutto quello che è fuori da questo contesto e dalla persona amata. L’ individuo che sviluppa dipendenza è reduce da insicurezza, bassa autostima e fiducia in se stesso, alienazione, e per questi motivi è alla ricerca di qualcosa o qualcuno in grado di rassicurarlo e incoraggiarlo ad affrontare le fatiche del mondo esterno.

L’ allontanamento, anche temporaneo, dall’altro è motivo di forte sofferenza, eccessiva gelosia, fino ad arrivare a episodi depressivi. Ci Si ancora a boe di salvataggio senza possibilità di allontanarvisi e, anche quando ci si rende conto di essere vittima di una relazione non appagante, si negano e si soffocano questi pensieri perché, oltre alla paura di rimanere solo ed essere abbandonato, nel dipendente affettivo prevale anche un pensiero assoluto di una relazione che, nonostante le difficoltà, darà i suoi frutti, diventerà sempre più forte e l’amore provato per l’altra persona sarà il promotore in grado di cambiare quello che non funziona nella relazione.

La dipendenza affettiva è vista come un processo all’interno della quale convivono cicli di euforia e desiderio, a cui seguono cicli di sentimenti e sensazioni negative. In questa forma di dipendenza, non si dipende dall’oggetto ma da un’altra persona. Dunque, i principali sintomi della dipendenza affettiva, si possono riassumere come di seguito:

  • Sfiducia in se stessi e insicurezza personale e sociale;
  • Tandenza a svalutarsi e svalutare i sentimenti;
  • Perenne paura di perdere l’amore ed essere abbandonati;
  • Colpa, rabbia e rancore;
  • Paura di soffrire la solitudine e di essere annulati;
  • Paura a mostrare il proprio vero Io;
  • Gelosia e possessività;
  • Non riuscire a vedere altra vita e altri orizzonti al di fuori della persona amata, generando ossessione.

967499084

Nell’ambito della terapia e trattamento della dipendenza affettiva, è importate la terapia di coppia all’interno della quale vengono individuate le difficoltà nella modalità di relazione per acquisirne nuove atte a migliorare il benessere della coppia e il rapporto in generale con l’altro. E’ importante promuovere laccettazione emotiva, dimensione all’interno della quale il cambiamento non è obbligatorio, ma viene smussata e vista in nuove forme la percezione che il soggetto ha del comportamento del partner, favorendo il dialogo e l’accettazione dell’altro. Non va tralasciato, inoltre, l’utilizzo di gratificazioni e rinforzi positivi, e tecniche di comunicazione e problem solving in grado di portare la coppia a riconoscere le discussioni, e, anzichè farne motivo di lite e ostilità, trovare il modo per affrontarle e individuare insieme le strategie per risolvere il problema.

Oltre alla coppia, è fondamentale promuovere l’accettazione mediante una maggiore cura per se stessi, puntando alla promozione di una maggiore valorizzazione di sé. Diversi sono i gruppi di sostegno all’interno dei quali i membri raccontano le proprie storie, apprendono a guarire dalla propria dipendenza e a concentrarsi e prendersi cura dei propri bisogni, incrementando la fiducia, la sicurezza in se stessi e l’autostima, imparando ad accattare l’altro per quello che è. Oltre a questi programmi terapeutici, in letteratura è in crescita il numero di libri utili ad affrontare in maniera positiva la dipendenza, spingendo verso un orientamento autodidatta (Spesso, viene suggerita la lettura di “Donne che amano troppo” di Robin Norwood -1989-). In genere, però, si tratta di libri che orientano la persona verso la strategia più giusta da utilizzare, verso pensieri a cui dedicare maggiore attenzione durante l’arco della giornata e, sempre più spesso, dopo una buona lettura, il dipendente cerca gruppi di aiuto all’interno dei quale trovare la strada per la guarigione (Sussman, 2010).

Infine, è importante non dimenticare l’ importanza della prevenzione, promuovere iniziative atte ad educare all’amore puro e non dipendente, all’interno delle quali praticare tecniche di gestione dell’umore. Queste iniziative possono essere ad esempio promosse nelle scuole o nei sistemi sanitari, all’interno dei quali mostrare scene di dipendenza affettiva e amore maturo, in modo tale da promuovere un approccio diretto verso queste realtà che a volte sembrano sconosciute. Ancora, si potrebbe incentivare il dialogo sull’amore in generale, chiedendo di parlare dell’amore, di come viene presentato non solo nella musica e nel cinema, ma anche nei miti, in letteratura e nelle poesie, in modo da favorire dibattiti costruttivi e spunti di  riflessione e di crescita sia personale sia in relazione con il prossimo.

Dott.ssa Teresa Marrone

BIBLIOGRAFIA

Guerreschi, C. (2011). La dipendenza affettiva. Ma si può morire d’amore? Milano: Franco Angeli Edizioni.

Norwood, R. (1989). Donne che amano troppo. Milano: Feltrinelli.                 

Peele, S., e Brodsky, A. (1974). Love and addiction. New York: Taplinger.

Sussman, S. (2010). Love Addiction: Definition, Etiology, Treatment. Sexual Addiction & Compulsivity, 17, 31–45, 2010. Journal of Social and Personal Relationships, 5, 473-501.       

 

Ti è piaciuto questo articolo? CONDIVIDILO!

Facci sapere cosa ne pensi lasciandoci un commento o scrivendoci, il tuo contributo arricchisce i contenuti, grazie!

 

  

Le modificazioni psicologiche della coppia durante la gravidanza

usata-27

Qualche settimana fa abbiamo introdotto il complesso processo di transizione verso la genitorialità il quale risulta essere articolato da una serie di fattori intrapsichici ed interpersonali che determinano molteplici cambiamenti nel proprio senso di identità sul piano personale, matrimoniale, familiare e sociale. Numerose ricerche in ambito psicologico (Lis et al., 2000) hanno dimostrato che ad influire maggiormente sul riassestamento individuale dei succitati piani è la dimensione dell’attaccamentoche fa riferimento alla tipologia e alla qualità del legame relazionale che ognuno di noi ha avuto nell’infanzia con la figura di accudimento (caregiver). Scientificamente, la letteratura dimostra che l’attaccamento riveste un ruolo centrale nella scelta del partner, in particolar modo è emerso che nell’età adulta ognuno di noi tende a riorganizzare la propria vita emotivo – affettiva in funzione dei passati legami d’attaccamento.  Il legame di attaccamento adulto, però, è caratterizzato anche da simmetria e reciprocità, la persona si fa a sua volta figura di supporto e accudimento per il partner all’interno di una relazione paritaria che comprende anche il sistema motivazionale sessuale. Pertanto, l’assunzione del ruolo genitoriale prevede il passaggio inter – generazionale dallo status di figlio a quello di adulto che comporta una riedizione della propria storia genitoriale, la rielaborazione dei modelli relazionali interiorizzati nel corso dello sviluppo e la costruzione di nuovi modelli di interazione e di relazione (Simonelli et al., 2006).

A questo punto la domanda sorge spontanea: “Quali sono i vissuti dei partner in questo articolato processo di transizione alla genitorialità che caratterizza tutta la durata della gravidanza fino alla nascita del bambino?”

sensodeltattoLa nascita di un bambino è un piccolo grande evento, sempre unico, che comporta una tempesta di emozioni, sensazioni, dubbi, problemi, felicità e preoccupazioni. Diventare genitori significa affrontare una costellazione di cambiamenti che riguardano Sé stessi, la coppia e la famiglia di origine. È importante dare spazio ai genitori perché si preparino ad accogliere il figlio che sta arrivando, fornendo all’uomo gli strumenti per diventare padre e alla donna quelli per diventare madre.

_embarazada-pDal punto di vista femminile, i sentimenti sono molteplici come gioia, felicità, sgomento, paura e mille altre emozioni. All’inizio della gravidanza, ogni donna è pervasa da mille interrogativi, impliciti e profondi, del tipo: “Sarò in grado di far vivere e crescere mio figlio? Sarò in grado di amare mio figlio, di anticipare e comprendere i suoi bisogni, le sue paure? Sarò come mia madre è stata con me? Sarò migliore o peggiore di lei?”  Questi interrogativi hanno a che fare con la capacità che ogni madre deve avere di prendersi cura del proprio figlio, non solo fisicamente ma anche psicologicamente. Diventare madre è un processo lento e delicato, in cui il riconoscimento dei cambiamenti corporei, la percezione dei movimenti fetali, l’immaginare il bambino ed i cambiamenti che apporterà nella vita, sono elementi importanti che segnalano la costruzione di un nuovo ruolo nella realtà futura della donna (Odorisio, 2010).

ansia-da-concepimento-maschile-3-155940_LDal punto di vista maschile, il processo di coinvolgimento genitoriale risulta essere più indiretto e più lento rispetto a quello che investe la madre. La prima fase di coinvolgimento è di natura mentale, cui fa seguito un periodo in cui il padre, pur continuando a rimanere uno spettatore, compartecipa alla gravidanza condividendo gli stati fisici e mentali della sua partner. Ma con l’imminenza del parto, anche il padre sente decisamente più concreto il proprio coinvolgimento, che interpreta nei termini di nuove responsabilità da assumere verso la creatura che sta per arrivare. Certamente la responsabilità che l’uomo sente più immediata è di natura economica (Ammaniti, 2008). L’annuncio della gravidanza è fatto di svariate emozioni molto potenti, ma queste emozioni non sono solo positive e piene di sensazioni di felicità, sono affiancate da molti interrogativi quali: “Sarò un buon padre? Sono in grado di proteggere il nostro desiderio di un figlio sia per me che per lei? E se dovessimo perdere il nostro desiderio che si sta realizzando? Da quali minacce debbo difendere tutti e tre?” In molti casi si avviano sensazioni nebbiose di preoccupazione per l’andamento della gravidanza, per la salute della madre e del bambino, l’incertezza sul da fare, lo scegliere, il modificare modalità con cui si è svolta la propria vita prima dell’annuncio, la rinuncia a delle cose che prima piaceva fare (Stilgenbauer, 2014).

l-39-uomo-affascinante-bacia-la-pancia-incinta-tenera-della-sua-signora-in-camicia-bianca_8353-1091La qualità del legame di coppia instaurato precedentemente al concepimento risulta essere in stretta relazione con la capacità di accogliere positivamente l’arrivo del bambino e con la qualità delle successive relazioni familiari. Questo è collegato alla capacità di ciascun partner di affrontare in modo flessibile e costruttivo il cambiamento e di costruire un sotto – sistema coniugale che riguardi esclusivamente la coppia, pur nell’ambito della nuova triade familiare (Simonelli et al., 2006).

 

Dott.ssa Consiglia – Liliana Zagaria

Bibliografia

Ammaniti, M. (2008). Pensare per due. Nella mente delle madri. Bari: Laterza.

Lis, A., Zennaro, L., Mazzeschi, C., & Pinto, M. (2000). La coppia in attesa del figlio primogenito: primi risultati relativamente alla funzione autoriflessiva (Self- Reflective Function). Psicologia Clinica dello Sviluppo (2), 313 – 329.

Odorisio, F. (2010). Gravidanza e maternità. Infanzia e Adolescenza, 9 (3), 170 – 177.

Simonelli, A., Fava Vizziello, G., Bighin, M., & Petech, E. (2006). La coppia nella transizione alla genitorialità tra adattamento e attaccamento. Terapia Familiare(82).

Stilgenbauer, A. (2014). Il desiderio di paternità. Rivista online (www.studiodegama.blogspot.it).

 

Ti è piaciuto questo articolo? CONDIVIDILO!

Facci sapere cosa ne pensi lasciandoci un commento o scrivendoci, il tuo contributo arricchisce i contenuti, grazie!

 

La dipendenza da alcool: dal “Bevo solo un bicchiere” al “Non posso più farne a meno”.

downloadL’alcolismo è un tema che negli anni ha portato sempre più persone ad essere maggiormente attente ad una tematica che spesso si tende a sottovalutare. Con il passare del tempo l’interesse si è intensificato tanto da portare alla nascita di varie associazioni che si sono sensibilizzate al fine di andare in soccorso a tutti coloro i quali, consapevoli o meno, trovano nell’ alcool la strada per cercare di dimenticare situazioni spiacevoli, traumatiche e turbolente.

Nell’articolo sulla dipendenza (link) abbiamo visto che dipendere vuol dire avere il bisogno di qualcuno o qualcosa in grado di soddisfare un’esigenza vitale per l’individuo, che può essere un’esigenza fisica o psicologica. La dipendenza da alcool è tra le più diffuse, caratterizzata dalla ricerca compulsiva di bevande alcoliche in quantità sempre maggiori, fino ad interferire con lo stato di salute della persona e con la sua vita lavorativa, relazionale e sociale.

Culturalmente, nel nostro paese, viene considerato adeguato il consumo di circa un litro al giorno di vino. Questa opinione, però, è stata messa in discussione da alcuni lavori che hanno messo in evidenza il concetto di “Dose Giornaliera Accettabile” (ADI) : questa dose varia da ricerca a ricerca, in alcune risulta corrispondere a mezzo litro di vino al giorno, in altre a mezzo bicchiere. Data la marcata discrepanza tra i valori sopraccitati, risulta importante prendere in considerazione il fattore individuale: nel considerare la dose giornaliera accettabile di una persona, viene presa in esame anche la sensibilità del singolo di fronte all’ alcool, considerando però che tutte le bevande alcoliche non sono del tutto innocue prima dell’instaurarsi dell’alcolismo, per diventare completamente nocive dopo. La differenza tra farsi una bevuta e ubriacarsi dipende dalla quantità di alcool che viene assunta, e chiaramente quest’ultima varierà da persona a persona e da momento a momento, ma senza dubbio chi beve troppo finirà col diventare ubriaco, e nella maggior parte dei casi imboccherà la strada che lo porterà a diventare alcolista.

L’alcolismo tendenzialmente si manifesta negli uomini. Le persone più a rischio sono coloro le quali presentano casi di dipendenza da alcool nella propria storia familiare (variante presente in quasi tutte le forme di dipendenza). Inoltre uno stile di vita particolarmente stressante, bassa autostima, depressione e difficoltà nella gestione delle emozioni negative sono altri importanti fattori di rischio nella genesi della dipendenza alcolica. In uno studio del 2013 si è potuto dimostrare che in persone affette da disturbo di abuso di alcool, l’essere portati a ruminare (pensare ripetutamente ad eventi passati, i pensieri in genere hanno contenuti negativi)  incrementa il desiderio irrefrenabile di bere (Caselli et al. 2016). La ruminazione mentale parrebbe essere sintomo cruciale nei disturbi da utilizzo di alcool e nel processo di ricaduta e fungerebbe da ponte tra emozioni negative e consumo di bevande alcoliche. Si ipotizza che l’individuo ricorra all’ utilizzo di alcool come strategia principale per sopprimere la ruminazione e gli effetti negativi ad essa correlati. 

L’uso smodato di alcool può portare gravi conseguenze allo stato di salute della persona: in particolare, non vanno sottovalutate le importati ricadute che si possono avere al fegato e al funzionamento cognitivo globale, con ripercussioni sull’umore, apprendimento, attenzione, memoria e alterazione del ritmo sonno-veglia.

download

Il trattamento dell’alcolismo non è cosa semplice, per una serie di ragioni. Ogni alcolista, infatti, è diverso dagli altri, e pur presentando la stessa dipendenza, richiede un trattamento personalizzato. Si porta gradualmente la persona a prendere coscienza del suo stato e a riconoscere il bisogno di cure, accettando che senza aiuto non può smettere di bere. Molto spesso gli alcolisti credono di avere tutto sotto controllo e di poter smettere quando vogliono, ma in realtà è rarissimo che ciò accada. E’ evidente che per trattare la dipendenza da alcool , non è esaustivo un solo trattamento, effettuato da un unico ente o servizio, ma è necessario mettere in pratica una serie di interventi, un lavoro di rete tra i vari operatori del campo, che richieda collaborazione reciproca. Si tratta di prendere in considerazione non solo i sintomi fisici, di natura clinica, ma anche quelli psicologici, proprio perchè spesso l’alcolismo è solo un fattore secondario rispetto ad altre problematiche (di natura lavorativa, relazionale, familiare, ecc.). 

Le ricerche suggeriscono che gli alcoldipendenti hanno difficoltà nell’ intraprendere un cambiamento per conto proprio e che il problema centrale, come in altri problemi di dipendenza, è mantenere il cambiamento nel tempo (H.M Annis, 1986). La ricaduta costituisce un  evento frequente per molti alcolisti che si sono sottoposti ad un trattamento. La terapia della prevenzione della ricaduta considera quest’ultima un processo e aiuta ad  individuare ed affrontare tutte le situazioni pericolose che potrebbero portare il soggetto a bere. Si basa sull’ idea che i comportamenti di dipendenza sono acquisiti per fronteggiare situazioni di stress. Si parla di effetto “violazione dell’astinenza” ovvero l’attribuzione di significato che il paziente da alla prima violazione dell’astinenza. Un’ attribuzione legata a vissuti di fallimento personale e inadeguatezza anziché ad una non ancora completa abilità nell’ affrontare situazioni ad “alto rischio”, porta più facilmente ad una seconda violazione e all’ abbandono del trattamento. (M. E. Larimer, R.S. Palmer, G. Alan Marlatt, 1999).  Le situazioni ad alto rischio, cioè situazioni che sono state identificate dai pazienti come fattore principale di ricaduta (essere in presenza di altre persone che bevono, conflitti, rabbia, ansia, depressione, frustrazione, noia) costituiscono un pericolo per la ricaduta nel caso in cui il soggetto non sia preparato adeguatamente a fronteggiare le stesse. Una persona che possiede adeguate risposte di coping (ad esempio lasciare la situazione a rischio, un positivo dialogo interno) ha una probabilità molto alta di non ricadere. Fondamentale nella terapia della prevenzione della ricaduta è insegnare al soggetto a riconoscere le situazioni a rischio di bevuta che una volta individuate permetteranno allo psicologo e alla persona insieme di rivedere il repertorio comportamentale e cognitivo o costruire ex novo le risposte adeguate per superarle.

Ritengo che la motivazione a voler smettere di bere che parte dalla persona sia il punto cardine dal quale iniziare per avviare un progetto di recupero. Possiamo convincere la persona in mille modi, possiamo condurla verso la direzione più giusta, possiamo tentare di cambiare il suo schema comportamentale e cognitivo, ma nulla batterà la sua forza di volontà. In merito a ciò, è importante incrementare le campagne di sensibilizzazione al problema, campagne in grado di far aumentare sempre più il desiderio di cambiamento, di rinascita, di riprendere in mano la propria vita, partire esattamente dal punto in cui l’alcool è diventato più forte dell’individuo e della sua forza di volontà. 

Dott.ssa Teresa Marrone

 

Bibliografia:

ANNIS, H.M. (1986). A relapse prevention model for treatment of alcoholics. In: Miller, W.R., and Heather, N., eds. Treating Addictive Behaviors: Processes of Change. New York: Plenum Press.

Domenichetti, C. (2016). Alcolismo e ruminazione – Report dal seminario del Prof. Caselli a Genova. 

Larimer, M.E., Palmer, R.S., Marlatt, G.A. (1999). Relapse prevention. An overview of Marlatt’s cognitive-behavioral model” Alcohol research and health : the journal of the National Institute on Alcohol Abuse and Alcoholism .

Ti è piaciuto questo articolo? CONDIVIDILO!

Facci sapere cosa ne pensi lasciandoci un commento o scrivendoci, il tuo contributo arricchisce i contenuti, grazie! 

Dolore coitale femminile: quando fare l’amore causa dolore

Sentire dolore durante l’intimità è una condizione molto frequente, di cui però spesso si soffre in silenzio.
E’ importante capirne le cause per poter vivere una sessualità appagante e libera dal dolore.

incontinenta

La sessualità riguarda da sempre un aspetto fondamentale nella vita di ogni persona, non solo per  la naturalezza e la funzione biologica che rappresenta, ma anche per tutti quegli aspetti legati alla cultura e all’educazione che ovviamente influenzano i costumi, i bisogni e molto spesso anche le esperienze sessuali delle persone. Inoltre è un campo umano ancora pregno di tabù e censure ed anche per questo, pieno di aspetti ancora sconosciuti. Se poi consideriamo che in Italia, nonostante da anni vi sia la proposta di legge per inserire l’educazione affettiva e sessuale nelle scuole, non siamo ancora arrivati ad una svolta definitiva rendendo questo aspetto educativo un onere dei genitori  che troppo spesso non hanno le conoscenze scientifiche e vivono l’inibizione e la vergogna di toccare certi aspetti con i propri figli, che solitamente si tende a percepire sempre più giovani e ingenui rispetto all’effettiva età anagrafica o maturità mentale, il risultato è una diffusa disinformazione. Inoltre a rendere ancora più  deficitaria la conoscenza della sessualità femminile e delle sue problematiche vi  sono la cultura cattolica e sociale che da sempre hanno relegato la donna ad una semplice funzione  procreativa, escludendo l’aspetto della salute e del piacere.  Fino agli anni ’80  si categorizzavano tutte le disfunzioni sessuali femminili sotto il termine “frigidità”, che in maniera confusa accorpava problematiche della fase orgasmica o di quella del desiderio. Oggi sappiamo innanzitutto che la risposta sessuale umana ha diverse fasi  distinte e separate (Masters e Johnson, 1966) e che ad ognuna di queste fasi può corrispondere un cattivo funzionamento di natura fisica o psicologica. Per utilità di trattamento si distinguono: disturbi del desiderio, dell’eccitazione, dell’orgasmo e dolore sessuale fino al vaginismo. Secondo i pionieri della sessualità Masters e Johnson, solo una piccola percentuale di disfunzioni sessuali femminili è provocata da uno stato morboso fisico, la maggior parte ha origine psicologica.

In caso di dolore durante il coito, la dispareunia o  disturbi della penetrazione e del dolore genito-pelvico (come da definizione del DSM V) affliggono una consistente percentuale di donne e sono motivo frequente di ricorso a sessuologi e ginecologi ed hanno quasi sempre una reale base organica, sulla quale si struttura una paura anticipatoria del dolore (Consolo, 2017). Secondo alcuni dati riportati dal Congresso Americano di Ostetrici e Ginecologi, 3 donne sessualmente attive su 4 hanno riportato fastidi di questo genere almeno una volta nella vita. Ovviamente l’aspetto doloroso può inficiare il desiderio sessuale o compromettere l’orgasmo, quindi spesso i sintomi possono essere confusi tra le varie condizioni cliniche. I sintomi caratteristici di questa condizione sono: marcato dolore vulvo-vaginale ossia il dolore che si manifesta in diversi punti della zona genito-pelvica;  conseguente paura o ansia per il dolore vulvo-vaginale prima, durante o come risultato della penetrazione vaginale che porta anche all’evitamento della sessualità; tensione o contrazione dei muscoli del pavimento pelvico durante il tentativo di penetrazione vaginale  ma anche sintomi che si manifestano fuori dal momento sessuale, come intolleranza alla frizione degli abiti, secchezza vaginale, bruciore, cistiti frequenti,  ecc… Vanno valutate l’intensità e la localizzazione del dolore per comprendere le cause e le possibili risoluzioni. Indispensabile è la collaborazione tra ginecologo e sessuologo. Spesso le donne con questa condizione clinica riportano una storia di infezione vaginale precedente all’insorgenza dei sintomi. Anche dopo che l’infezione è risolta e non ci sono evidenti segni fisici il dolore persiste. Altre cause possono essere ormonali, muscolari, vascolari o neurologiche. È utile per l’eziologia e il trattamento, in fase anamnestica raccogliere informazioni su fattori riguardanti il partner (problemi sessuali, stato di salute, ecc…), fattori relazionali (scarsa comunicazione, differenza di desiderio sessuale, ecc…), fattori di vulnerabilità individuale (bassa autostima , un abuso sessuale,…), fattori culturali o religiosi, malattie psichiatriche o altre condizioni mediche.

lamenteemeravigliosafonte
fonte: lamenteèmeravigliosa

Le cause psicologiche sono solitamente individuate in uno stato ansioso che altera la lubrificazione e soprattutto provoca un’elevazione del tono muscolare vaginale. In questi casi sono indicate tecniche di rilassamento e di controllo muscolare (tipo gli esercizi di Kegel), di gestione dell’ansia e di sensibilizzazione o esposizione graduata (fra cui l’autodilatazione vaginale). Le cause relazionali potrebbero contribuire al peggioramento della dispareunia mediante meccanismi di mantenimento del sintomo e di innalzamento della percezione del dolore; i fattori psicosessuali e relazioni si traducono sempre in alterazioni emotive (bisogno/desiderio, collera/rabbia, ansia/paura) influenzando una o più fasi della risposta sessuale. Queste cause possono essere: mancanza di intimità emotiva, conflitti coniugali o lotte di potere, resistenza ad avere rapporti in contesti affettivi deludenti che portano inadeguata eccitazione alla donna, scarsa compatibilità anatomica generale ( da verificare con esame obiettivo medico).

Inoltre secondo la Kaplan le tecniche sessuali inadeguate sono terreno fertile per la compromissione del funzionamento sessuale femminile, soprattutto a causa di un’ignoranza in campo sessuale: spesso si ignora completamente l’anatomia genitale femminile, la donna non è in grado di richiedere una stimolazione più piacevole perché non sa come chiederla e non è consapevole delle proprie necessità. È importante che il clinico valuti l’adeguatezza degli stimoli sessuali nell’esperienza sessuale della donna poiché preliminari o eccitazione inadeguati possono portare difficoltà di penetrazione, dolore o evitamento

fontealessandrocentini
fonte: alessandro centini

Anche se le donne solitamente si presentano all’attenzione clinica dopo l’inizio dell’attività sessuale vi sono precedenti segni clinici evidenti. Nei casi in cui è difficile stabilire se la sintomatologia è permanente o acquisita, è utile determinare la presenza di un periodo prolungato in cui il rapporto sessuale è svolto con successo, senza dolore , paura o tensione. Se l’esperienza di un tale periodo può essere stabilita allora il disturbo da dolore genito-pelvico è definito come acquisito. Se la sintomatologia è stabile da 6 mesi, risulta difficile l’ipotesi di una remissione spontanea dei sintomi. Negli ultimi decenni vi è sempre maggiore richiesta di intervento, per questo la terapia sessuale si è arricchita integrando diversi approcci psicologici, senza dimenticare la sinergia tra diverse figure professionali differenti per considerare contemporaneamente la dimensione biologica, psicologica e sociale nella genesi dei disturbi , ponendo così al centro la persona per la comprensione del suo disagio e la strutturazione del progetto terapeutico.

 

Dott.ssa Sara longari

 

 

Bibliografia:

 

Consolo I., Il piacere femminile. 2017 Giunti

Fenelli, Lorenzini, Clinica delle disfunzioni sessuali -1991 Carocci Faber

Kaplan H.S., Nuove terapie sessuali– 1976 Bompiani.

Masters W., Johnson V.- L’atto sessuale nell’uomo e nella donna;  Feltrinelli 1976.

Sitografia:

https://viverepiusani.it/cause-dolore-rapporto-sessuale/

 

Ti è piaciuto questo articolo? CONDIVIDILO!

Facci sapere cosa ne pensi lasciandoci un commento, il tuo contributo arricchisce i contenuti, grazie!

Dalla diade alla triade: lei, lui e la dolce attesa

gravidanzacoppia-1-656x430.jpg

Il passaggio dalla coniugalità alla genitorialità costituisce una transizione chiave nel ciclo di vita della famiglia, che si trasforma in un sistema a tre persone (Simonelli, 2002) ovvero l’attesa e la nascita di un bambino comportano la ristrutturazione e la verifica del rapporto preesistente all’interno della coppia che si appresta a ricevere un nuovo membro, comportando numerosi cambiamenti sia a livello fisico e biologico che a livello emotivo e relazionale. A tal proposito la letteratura scientifica dimostra come la gravidanza si accompagna contemporaneamente ad una diminuzione dell’interazione col partner sul piano sessuale e a un aumento della stabilità della relazione sul piano del vissuto emotivo; emerge inoltre una diminuzione dei rapporti sessuali in gravidanza per motivazioni legate per lo più ad aspetti tradizionali di tipo familiare, religioso e sociale piuttosto che ad aspetti strettamente medici (Capodieci, et al., 1990).

Durante la transizione verso la genitorialità cominciano a formarsi dei modelli rappresentazionali di Sé come genitore derivanti da una trasformazione dell’identità e da uomo e donna, marito, moglie, partner, si diventa anche genitori. In queste rappresentazioni comincia a prendere corpo, già durante la gravidanza, la presenza del feto bambino.  Inoltre, si attivano vari sistemi relazionali: ogni genitore comincia a porsi in rapporto con il figlio, c’è una relazione tra i due futuri genitori e si comincia a costruire una relazione triadica, pertanto si parla di coparenting o cogenitorialità per indicare una relazione fra due adulti che hanno la responsabilità di prendersi cura e proteggere il bambino.  Questo implica un’interazione tra i due genitori, un coordinamento dei loro comportamenti in un processo bidirezionale, che è più complesso della somma dei singoli ruoli. Il funzionamento della coppia è caratterizzato da un lato dal reciproco sostegno e dalla condivisione ma naturalmente dall’altro vi sono anche conflitti ed interferenze. La capacità triadica consiste nella possibilità di ciascun partner di vedere Sé stesso come genitore in rapporto con il figlio, senza escludere l’altro genitore, ma addirittura vedendolo come parte della relazione, in connessione con Sé stesso (Ammaniti et al., 2011,). La cogenitorialità assume differenze notevoli a seconda di come la coppia affronta la gravidanza. In alcune coppie il rapporto sentimentale si intreccia fin dall’inizio con il desiderio di avere un figlio insieme; in altre non è detto che tale desiderio si manifesti in tutti e due i partner contemporaneamente, spesso è la donna ad avvertire per prima l’esigenza di diventare madre, altre volte è l’uomo a sentire per primo il desiderio di un figlio e comincia a parlarne con la propria compagna (Ammaniti, 2008).

78d398ddbe3ffbe082284b42b9e2ffc1_XLAmmaniti e i suoi collaboratori (2010) hanno evidenziato il contributo che l’ecografia ostetrica apporta alla formazione e al consolidamento sia del legame materno – fetale sia della relazione padre – bambino; in quanto l’ecografia rende la presenza del bambino più visibile per entrambi i genitori e può favorire la transizione alla paternità, dato che l’uomo in attesa di un figlio non è direttamente coinvolto nei cambiamenti fisici della gravidanza ed il suo contatto con il bambino è mediato principalmente dai cambiamenti corporei della partner. L’ecografia è un’occasione importante per diversi motivi: in primis perché i padri possono vedere il bambino già durante la gravidanza e si sentono meno estranei rispetto al suo andamento; oltretutto trasmette un senso di rassicurazione ai genitori, in particolare alla madre che generalmente si preoccupa che il bambino sia sano, che cresca in modo adeguato; infine stimola la cogenitorialità perché i genitori condividono la visione dell’immagine del bambino e discutono sul sesso; sulle caratteristiche; sulle aspettative; su quello che vogliono e non vogliono; su certe somiglianze familiari. Inoltre, anche la relazione co – genitoriale può essere influenzata dall’ecografia ostetrica, poiché mentre quest’ultima viene eseguita la coppia ha un’esperienza condivisa di “contatto” con il figlio che stimola emozioni intense e favorisce la condivisione delle fantasie coscienti sul figlio e la capacità di anticipare le relazioni familiari future senza escludere il partner o il bambino dalla relazione.

ob_123595_pensare-ad-un-figlioIl divenire padre o madre costituisce forse l’esperienza più coinvolgente, profonda, e definitiva della vita umana, rappresentando un legame destinato a durare per sempre. Bisogna anche considerare che il desiderio di un bambino è strettamente legato anche a fattori attinenti alla storia specifica della coppia o alle esperienze fatte dai coniugi nell’ambito dei rispettivi nuclei di origine. Il desiderio riproduttivo assume valenze diverse per l’uomo e per la donna ed è strettamente legato alle rappresentazioni interne, alla personalità, alle esperienze infantili, al rapporto con i propri genitori, al proprio essere stato ed essere tuttora figlio (Simonelli, 2002; Stilgenbauer, 2014).

Da un punto di vista maschile, la decisione di avere un figlio difficilmente parte da una pianificazione razionale bensì tale scelta è legata ad una fase in cui il rapporto di coppia è avvertito come sufficientemente sicuro per desiderare e accogliere l’idea di una nascita, pertanto l’inizio di una gravidanza dà senso e segna una fase importante per la coppia. Stilgenbauer afferma: <<La scelta di paternità non può prescindere dalla costruzione dell’accoglienza generativa di coppia, dall’incontro con il reciproco altro desiderio di maternità, condizione affettiva imprescindibile da cui prende visibilità la nascita di un desiderio terzo, elemento che accomuna il lui alla lei; questo desiderio che chiamo terzo è l’ambiente emozionale in cui il concepimento troverà accettazione>>. Dal punto di vista femminile, Brazelton e Cramer (1990) sostengono che la decisione di diventare madre sottende molteplici motivazioni psicologiche che sono alla base del desiderio di maternità, prima fra tutte vi è l’identificazione, cioè il desiderio di essere la madre nutrice e l’attuazione di tutti i comportamenti ad essa relativi. La seconda motivazione è costituita dal desiderio della donna gravida di essere perfetta e onnipotente, di sperimentare cioè il proprio corpo come produttivo e potente, sostituendosi alle sensazioni di vuoto e alle preoccupazioni derivanti dalle imperfezioni corporee. La terza motivazione è quella della fusione intesa come il desiderio di tornare all’unità originaria con la propria madre. La quarta motivazione è il desiderio di rispecchiarsi nel bambino, ossia di vedere riflessi nel bambino i segni della propria creatività e della propria capacità di allevare. La quinta è la considerazione del bambino come un’estensione non solo del corpo materno ma anche del proprio Sé grandioso. Dunque, tali desideri narcisistici sono indispensabili affinché la donna consideri il proprio bambino come unico, come “l’oggetto” più prezioso della sua vita, per far sì che si instauri quel particolare e specifico legame che lega ogni donna al proprio figlio (Odorisio, 2010).

Riassumendo, la volontà di procreazione nasce dalla condivisione del desiderio dei partner di accogliere insieme una nuova vita e di unirsi in maniera profonda per permettere un’evoluzione della loro vita e di quella di coppia.

Tribolazioni-17-Perseguire-o-desiderare-Rubrica-di-Psicologia-quadrato-300Purtroppo, però ci sono casi in cui la scelta di avere un figlio rappresenta un percorso decisionale di coppia che non sempre coincide temporalmente per entrambi i partner, semplicemente perché alla base vi sono desideri diversi; spesso capita infatti che l’esigenza di avere un bambino sopravvenga prima in uno dei due partner rispetto all’altro. Quando la voglia di avere un figlio appartiene solamente ad una persona della coppia può iniziare un periodo difficile della vita a due rispetto agli obiettivi comuni e al futuro che li riserva. Il primo problema da affrontare è capire l’origine della mancanza di desiderio dell’avere un figlio. I motivi più comuni per cui una persona non desidera avere un bambino possono essere riassunti nei seguenti: la paura di perdere i propri spazi e la propria libertà; il timore di vedere spegnersi il rapporto univoco con il proprio partner che si dovrebbe a quel punto dividere con una terza persona; la paura di non essere in grado di assumersi la responsabilità di un altro individuo, il timore di non essere in grado di educarlo e di proteggerlo dai problemi del mondo. Le donne dal canto loro diventano più pressanti quando l’orologio biologico inizia a ticchettare con insistenza quasi a sottolineare il tempo che passa inesorabilmente. Razionalmente, il momento giusto per fare un figlio potrebbe essere la sicurezza economica dei partner, il possedere una casa, la stabilità del rapporto, ma tutto questo non basta. La decisione di avere un figlio è un salto nel vuoto che si compie in due e se uno ha paura l’altro deve aiutarlo, quanto meno a capire perché vuole aspettare. Ma la persona che invece lo desidera è disposta ad aspettare? E soprattutto per quanto tempo? Alla base di tutto è fondamentale che vi sia un dialogo sincero e appassionato. È auspicabile infatti che un bambino sia figlio non solo dell’amore tra due persone, ma anche il frutto di una sinergia di pensieri puri, leali, pieni di fiducia e passione per la vita. Tanto da generarne una nuova da ammirare nella bellezza della sua crescita ed evoluzione (Rotriquenz, 2014).

Bibliografia

Ammaniti, M., Mazzoni, S., & Menozzi, F. (2010). Ecografia in gravidanza: studio della co – genitorialità. Infanzia e Adolescenza, 9 (3), 151 – 157.

Ammaniti, M., Mazzoni, S., & Menozzi, F. (2011). Cogenitorialità e gravidanza: uno studio ecografico. Interazioni (2), 49 – 56.

Brazelton B., Cramer B. (1990).  Il primo legame.  Milano: Frassinelli 1991.

Capodieci, S., Ferraro, I., Dall’Albra, B., Rupolo, G., Baldo, M., & Canu, B. (1990). Gravidanza, maternità, paternità e vita sessuale di coppia. Rivista di sessuologia, 14, 331 – 346Simonelli, C. (2002). Psicologia dello sviluppo sessuale ed affettivo. Roma: Carocci.

Odorisio, F. (2010). Gravidanza e maternità. Infanzia e Adolescenza, 9 (3), 170 – 177.

Rotriquenz, E. (2014). Coppia: dubbi, paure e divergenze rispetto al desiderio di avere un figlio. Rivista online (www.lifestyle.tiscali.it).

Stilgenbauer, A. (2014). Il desiderio di paternità. Rivista online (www.studiodegama.blogspot.it).

 

Dr.ssa Consiglia – Liliana Zagaria

 

Ti è piaciuto questo articolo? CONDIVIDILO!

Facci sapere cosa ne pensi lasciandoci un commento o scrivendoci, il tuo contributo arricchisce i contenuti, grazie!

 

 

Dipendenza e New Addiction

addiction2-2

In lingua inglese , troviamo una  distinzione tra addiction e dependence, che in italiano sono invece tradotti con la stessa parola dipendenza, pur avendo significati molto diversi. Infatti, con il primo termine si intende una condizione generale, in cui la dipendenza psicologica da una sostanza o da un oggetto spinge alla ricerca dell’oggetto stesso, per ritrovare sollievo; con il secondo, invece, si intende la dipendenza fisica e chimica, quindi una condizione in cui l’organismo per funzionare, richiede e necessita di una determinata sostanza (Maddux & Desmond, 2000).

Il termine inglese “Addiction”, tradotto in italiano  come  ” dipendenza patologica”, deriva dal termine latino “Addictus”, utilizzato nell’Antica Roma per indicare  una condizione di schiavitù o servitù, e viene utilizzato successivamente in ambito scientifico per indicare  lo stato di assoggettamento in seguito all’assunzione di droghe.

Dipendere vuol dire avere il bisogno di qualcuno o qualcosa in grado di soddisfare un’esigenza vitale per noi, che può essere un’esigenza fisica o psicologica. Ci sono dipendenze sane e patologiche. Quelle sane fanno riferimento alla dipendenza per l’aria, acqua, cibo, affetti e tutto ciò che permettere di poter vivere e sopravvivere, ma anche aumentare e accrescere la propria interiorità. Patologiche, invece, sono tutte quelle dipendenze che, al contrario delle prime, compromettono non solo la qualità della propria e altrui vita, ma portano alla perdita di controllo su se stessi e sull’ambiente circostante, fino all’annientamento di sé. La dipendenza patologica si instaura quando si fa ricorso ripetutamente e sistematicamente ad esperienze particolarmente eccitanti e fuori da quelle che abitualmente si hanno, per evitare il contatto con esperienze  ansiogene, che provocano panico o depressione. La persona percepisce buona un’attività patologica e la trasforma in ordinaria: affronta il problema positivamente, riesce ad approcciarsi agli altri, si sente all’altezza sia nella vita quotidiana che nel lavoro e prova un interesse significativo per quello che lo circonda e per la vita in generale. Questo stato, però, non deve essere confuso con l’impegno attivo e costante in una attività: a differenza di chi è dipendente, il non dipendente  riesce a gestire e ad avere consapevolezza dei propri eccessi, e riesce a porre una fine qualora dovesse superare il proprio livello soglia, anche se tendenzialmente c’è il rischio che diventi poi dipendente.

Francisco Alonso-Fernandez (1999) classifica le dipendenze in:

  1. Dipendenze sociali o legali
  2. Dipendenze antisociali o illegali

Le prime sarebbero costituite da droghe legali, come per esempio tabacco, alcol, e da attività socialmente accettate come mangiare, lavorare, fare acquisti, giocare, guardare la televisione. Il secondo sottotipo comprenderebbe, invece, le dipendenze da droghe ed attività illegali, per esempio cocaina ed altre droghe, rubare, incendiare. Le dipendenze legali finiscono per diventare “illegali” per il dipendente, nel momento in cui quest’ultimo arriva ad un utilizzo smodato degli stessi, mettendo a rischio la propria vita. Pervadono e riempiono l’individuo e tutto quello che lo circonda, e per il loro carattere schiavizzante e non solo, assumono le stesse caratteristiche della tossicodipendenza e dell’alcolismo.

Nella dipendenza patologica, la persona perde ogni controllo, non tenendo conto delle conseguenze di tali condotte disregolate. Questi comportamenti, poi, sono accompagnati da craving, assuefazione e astinenza. Il termine craving, dall’inglese “To crave”, vuol dire bramare, desiderare ardentemente, e indica un desiderio incontrollabile verso sostanze o comportamenti che portano al soddisfacimento del proprio bisogno o desiderio. Generalmente si registra la presenza di impulsività, perchè si tratta di fattori che oltre ad essere associati alla sostanza, svolgono proprio un ruolo di trigger, innescando, a sua volta, un meccanismo di condizionamento (Tiffany and Conklin, 2000). Assumendo sempre la stessa quantità di sostanza si andrà incontro al rischio di assuefazione, l’organismo diventa insensibile a seguito dell’assunzione di una quantità di sostanze. Per avere gli effetti desiderati si devono assumere quantità sempre maggiori. L’astinenza, invece, indica una serie di sintomi, fisiologici e cognitivi, che si verificano  quando si priva l’organismo dall’ assunzione di sostanze o comunque comportamenti patologici, e nelle persone che hanno sviluppato un certo grado di assuefazione della sostanza stessa. In questo caso, quest’ultima viene assunta solo per attenuare o evitare i sintomi dell’astinenza.  

tipi-di-dipendenzeLa Società Italiana di Intervento sulle Patologie Compulsive (S.I.I.Pa.C.) è un centro specializzato nella cura e riabilitazione di persone con problemi di dipendenza psicologica. E’ stata la prima struttura in Italia a studiare ed approfondire il fenomeno del Gioco d’Azzardo Patologico (GAP), ma affronta anche altre “new addictions”, ossia tutte quelle forme di dipendenza in cui non è implicato l’intervento di alcuna sostanza chimica ma di un comportamento o attività (dipendenze comportamentali). Sul sito della società vengono descritte tutte le new addiction, e di seguito presenterò le principali in diffusione:

  • Shopping compulsivo: Desiderio morboso, smodato e non controllabile di comprare oggetti, anche inutili, in quantità eccessive. Si tratta di una compulsione all’acquisto e spesso gli oggetti non riflettono i gusti reali ed effettivi dell’acquirente, e gli acquisti non sono coerenti con la disponibilità finanziaria dello stesso. Colpisce più le donne che gli uomini. Le cause sono collegate ad un senso di solitudine, vuoto, impulsività. Tale fenomeno dura in media 2-3 ore durante le quali il soggetto prova un senso di piacere ed euforia, sostitute in seguito dal senso di colpa.
  • Gambling (Gioco d’azzardo patologico): Si tratta di persone di per sé appassionate al gioco, che trasformano tale passione in dipendenza. In genere sono persone che si danno dei limiti ” giocherò questo denaro fino a quest’ora” che non riescono a rispettare, facendosi sopraffare dall’euforia in circolo nel proprio corpo, provando un piacere simile alla sbornia o all’estasi. Smettendo di giocare entrano in uno stato di malessere interiore, ansia, fino a manifestazioni depressive con rischio di suicidio.
  • Cyberdipendenza: Con tale termine non si intende solo un eccessivo consumo di televisione, ma più comunemente il termine fa riferimento all’uso smodato di oggetti di nuova tecnologia (computer, internet, cellulari, play station, ecc). Il rischio di obesità, perdita di appetito, vertigine e nausea, alienazione e dolori articolari sono le principali conseguenze a cui può incorrere generalmente il cyberdipendente.
  • Lavoro patologico: Un eccessivo tempo viene dedicato al lavoro. Quest’ultimo non è più un mezzo di sopravvivenza, per guadagnarsi da vivere, ma diventa un modo per evitare di affrontare problemi o mancanze. La vita ha senso solo se si concentra ogni energia nel lavoro. Tutta la vita del lavoratore dipendente ruota attorno al lavoro. Quando questo viene a mancare, pur solo per il fine settimana, compaiono sentimenti di ansia e angoscia.
  • Dipendenza da sport: Tale dipendenza si instaura quando sottoponiamo il corpo ad attività sportive eccessive e anziché trovare un benessere psicofisico, il corpo stesso cede non riuscendo a recuperare nei giusti tempi la fatica accumulata. Si parla di “overtraining” (eccesso di training), proprio per indicare una situazione in cui il corpo necessita di mesi per recuperare le forze e i regolari livelli psicofisiologici. L’overtraining va distinto dall’ “overreaching”, dove si recupera relativamente in poco tempo, e dal ” senso di fatica” che dura uno o due giorni.
  • Dipendenza da rischio: È una forma di dipendenza che colpisce gli estremisti del rischio, coloro che vanno oltre qualsiasi limite, qualsiasi forma di pericolo, arrivando a mettere a rischio la propria vita. Sfidare il pericolo e uscirne vincitore, aumenta il senso di potenza e di controllo di cui sono persuasi i dipendenti dal rischio.
  • Dipendenza sessuale: Chiamata anche Sex addiction. Si tratta di una relazione malata con il sesso. Molto spesso viene confusa con la normale e piacevole attività sessuale. La differenza è racchiusa nella capacità di porsi un limite: i dipendenti sessuali non sono in grado di controllare i loro eccessi sessuali che possono sfociare ad esempio in masturbazione compulsiva e ossessiva o presenza di pensieri intrusivi relativi al sesso che distraggono l’individuo nella vita lavorativa e relazionale. La persona vive di e per il sesso. Il sesso non diviene più fonte di piacere, ma diventa un modo per evitare situazioni dolorose o frustranti. L’euforia provata dura solo il tempo dell’atto sessuale, dopo l’orgasmo il soggetto prova disperazione e odio, tristezza e senso di colpa per se stesso.
  • Dipendenza affettiva: Conosciuta anche come Love addiction. Si riferisce alla dipendenza che una persona può sviluppare verso un’altra, arrivando a dipenderne totalmente. La sua felicità viene affidata interamente all’altra. Senza questa la persona si sente vuota, si sente niente, si sente annullata. È una dipendenza che colpisce in maggioranza le donne. 

Queste sono solo alcune tra le new addiction più conosciute e in continua crescita, ma la lista si allunga se poi vengono considerate tutte quelle dipendenze specifiche che costituiscono sottodipendenze delle aree più generali.

Concludendo, le new addictions sono dipendenze legali che finiscono per diventare “illegali”, smettendo di assumere il proprio ruolo sociale per asservire la persona. Più generalmente,  le cause di dipendenza più diffuse, con o senza sostanza, si dividono in due categorie: fattori ambientali e fattori individuali. Tra i primi rientrano le eccessive pretese e lo stress accumulato, la disponibilità dell’oggetto desiderato o dell’attività e le ricompense abituali. Tra i secondi, invece, rientrano un fragile supporto sociale, lo stile di attaccamento, autostima bassa, scarso autocontrollo tendente all’impulsività, difficoltà nella concentrazione, tratti narcisistici ed antisociali.

Consiglio la visione di un video di Andreas Hykade, regista di animazione tedesco, che in maniera semplice e chiara ha illustrato perfettamente il meccanismo che innesca la dipendenza. 

Linkhttps://www.youtube.com/watch?v=P-Sypm-Q2UE

Buona visione e riflessione!

Dott.ssa Teresa Marrone

 

Bibliografia

Fernandez, A.F. (1999). Le altre droghe. Roma: E.U.R.

Maddux, J.F., & Desmond, D.P. (2000). Addiction or dependence? Addiction, 95, 661-665.

Tiffany, S.T., & Conklin, C.A. (2000). A cognitive processing model of alcohol craving and compulsive alcohol use. Addiction, 95, S145–S153.

Sito Siipac: http://www.siipac.it/

Ti è piaciuto questo articolo? CONDIVIDILO!

Facci sapere cosa ne pensi lasciandoci un commento o scrivendoci, il tuo contributo arricchisce i contenuti, grazie!