Adolescenti, sviluppo e sessualità: istruzioni per i genitori.

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fonte:amando.it

Nella vita dei genitori  sono molti i momenti di difficoltà educativa che si attraversano, ma certamente nessun periodo della vita provoca ansia alle mamme ed ai papà come il momento in cui i figli, fino ad allora considerati piccoli e indifesi, si affacciano allo sviluppo adolescenziale. I dubbi sulle giuste regole educative da imporre, le preoccupazioni sulle amicizie e sulla scuola, le prime litigate furibonde sull’orario di rientro e soprattutto, il più grosso tabù di un genitore: “A che età mio/a figlio/a scoprirà la sua sessualità?” .Tutti noi siamo stati adolescenti e chi più chi meno, abbiamo subito ramanzine, siamo stati controllati dai nostri genitori, e spesso siamo riusciti ad evadere dalle imposizioni e dalle regole che ci hanno imposto, eppure ora, da adulti, nel ruolo genitoriale troppo spesso ci si dimentica di quanto sia delicata questa fase di vita per chi la vive in prima persona: gli adolescenti.  Certo è vero, i genitori di oggi si trovano ad affrontare situazioni che ai nostri genitori non sono capitate, poiché viviamo in un’epoca in cui la sessualità è sdoganata dalle televisioni (reality 24h su 24h che mostrano momenti di intimità tra i protagonisti), i primi smartphone con accesso ad internet vengono consegnati a ragazzi sempre più giovani (già a 10 anni si è in possesso di smartphone di proprietà del fanciullo, ma basta guardarsi intorno per rilevare come già bambini di 3-4 anni siano in grado di armeggiare tra link e video dai cellulari dei genitori), i computer vengono utilizzati dai ragazzi spesso senza un controllo adulto, accedendo quindi a contenuti anche hard, che sicuramente non sanno gestire dal punto di vista emotivo. E’ chiaro quindi che oggi si presenta un paradosso pedagogico: in un periodo storico in cui si parla di sessualità fluida, accessibile e normalizzata rispetto al passato, il compito genitoriale richiede una maggiore attenzione all’educazione per essere una guida sana ed equilibrata per i propri figli.

faz.netChiariamo il primo concetto fondamentale: adolescenza e pubertà sono due aspetti diversi di una fase di crescita umana; la pubertà è il cambiamento fisico e ormonale (dagli 11 ai 16 anni) che comporta la comparsa delle prime mestruazioni nelle ragazze (menarca) e della produzione dello sperma nei ragazzi (spermarca), vi è quindi la maturazione dei caratteri sessuali primari che permette la funzionalità degli apparati anatomici, e la comparsa dei caratteri sessuali secondari associati a modificazioni morfologiche (aumenta l’altezza, vi è la comparsa dei peli pubici e ascellari,  della barba nei maschi, crescono i seni alle ragazze, vi è una modificazione della voce, la comparsa dell’acne tipica dello sbalzo ormonale).

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fonte:vix.com

Un primo importante aspetto psicologico da considerare è che la maturazione puberale dichiara al mondo la propria mascolinità o femminilità biologica e la capacità di riproduzione, e questo è evidente soprattutto per le ragazze, per un motivo molto semplice: il ciclo mestruale è qualcosa di lampante (si vede) e spesso questo passaggio (soprattutto nei piccoli centri) è un momento in cui la famiglia viene resa partecipe in una certa misura (la mamma, le zie, di solito sono coinvolte dalle ragazze se non altro perché ci si trova per la prima volta a districarsi con gli assorbenti), mentre per i maschi questo aspetto resta maggiormente nella sfera privata (spesso la prima eiaculazione avviene tramite masturbazione, che per i ragazzi è un’attività che inizia molto precocemente, o per polluzioni notturne quindi è possibile che il ragazzo stesso non si accorga di questo momento di sviluppo). La masturbazione sembra essere la modalità predominante di espressione sessuale per gli adolescenti maschi, molto meno per le femmine (scoraggiate fin da piccolissime all’esplorazione manuale del proprio corpo, ed educate con lo stereotipo che la sessualità sia una cosa concessa più ai maschi). L’adolescenza  invece è il periodo di transizione psicologica e sociale tra l’infanzia e l’età adulta: essa varia per durata, qualità e significato da una civiltà all’altra e all’interno della stessa civiltà anche da un gruppo sociale all’altro. L’aspetto di transizione riguarda la separazione dalla fanciullezza e dai genitori e lo stabilirsi di un’identità sessuale adulta e della capacità di intimità. Ma non solo, poiché gli adolescenti si trovano in uno stallo di riconoscimento sociale: non sono più considerati bambini, ma non sono nemmeno adulti, perciò nella quotidiana lotta di accettazione e scoperta del proprio corpo che cambia forma, esigenze e odore, vi può essere la confusione di una richiesta sociale che spesso risulta “bipolare”. L’adolescente si accorge che lo spazio dei sentimenti familiari deve essere modificato, sente di doversi porre diversamente rispetto alla famiglia per poter accedere ad altri legami. Ci si deve staccare dall’immagine di sé infantile, dalle gratificazioni a cui l’infanzia ci ha abituato (Consolo,2016).
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Questo processo di separazione fa parte del normale ciclo di vita, si realizza gradualmente e non implica la fine di un rapporto ma una sua trasformazione. Se non si presentano particolari difficoltà, si assiste ad un cambiamento della relazione genitori-figli in senso più maturo e simmetrico, indispensabile per il raggiungimento di una condizione di autonomia fisica ed emotiva (Consolo,2016).

Nella seconda metà dell’adolescenza da 15 a 19 anni, le dimensioni adulte vengono più o meno raggiunte mentre la maturità psicosociale ritarda ancora: gli individui lottano per l’autonomia, l’accettazione del gruppo dei pari e l’assunzione di rischi diventa sempre più importante. Per gli adolescenti il cui orientamento sessuale è omosessuale, la tarda adolescenza è spesso il periodo in cui essi si separano dal mondo eterosessuale (molti omosessuali dichiarano di aver fatto le prime esperienze sessuali con persone di sesso opposto, per la non-accettazione del proprio orientamento o semplicemente per non essere discriminati), consapevoli dei numerosi giudizi omofobici del mondo etero,ma arrivati a questa fase per la maggioranza si palesa una consapevolezza (qui un articolo sull’argomento) . In epoca adolescenziale il necking (stimolazione dalla vita in su) e il petting (stimolazione dalla vita in giù) costituiscono un importante occasione di conoscenza sessuale, ma l’esperienza più rivelante è ovviamente il rapporto completo. Sebbene non tutti gli esperti concordino circa l’età appropriata per il primo rapporto, la maggior parte conviene sul fatto che la prima adolescenza fino ai 14 anni sia troppo precoce e le conseguenze correlate ad una sessualità troppo precoce sono molteplici: comportamenti a rischio come uso di alcol e droghe, mancanza di contraccezione e quindi il rischio di contrarre malattie a trasmissione sessuale e gravidanze  indesiderate, abbandono scolastico. MST-511x340 Al termine dell’adolescenza, la maggior parte degli individui ha avuto rapporti sessuali con regolarità e ha sviluppato un’identità sessuale consolidata. C’è da tenere conto che la precocità puberale  facilita un inizio altrettanto precoce di attività sessuale, ma anche lo sviluppo cognitivo e affettivo di ogni giovane influisce sulla sua capacità di cogliere gli effetti a medio e lungo termine delle proprie condotte sessuali. Le modalità di attaccamento vissute nell’infanzia faranno da traccia per le sue relazioni (ne abbiamo parlato qui). Secondo Fabbrini e Melucci (1992) la capacità di innamorarsi è il segno più caratteristico di questa età e la più convincente dichiarazione di salute che un adolescente possa dare di sé. Per questo da genitori, bisogna ricordarsi che essere una guida attenta e autorevole (non proibitiva, attenzione!) è importante specialmente in una fase di vita in cui la sfida dell’autorità è un mezzo per l’affermazione di sé, ma è altrettanto fondamentale non diventare nemici dei propri figli, riuscire ad aprire un dialogo nel quale essi possano sentirsi liberi di affrontare certi argomenti  senza il muro dei tabù, in modo da evitare che essi attingano da fonti impreparate come il gruppo di pari, o molto confusionarie come la rete e i social media.

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Non si deve demonizzare il sesso, ma responsabilizzare gli adolescenti a rispettare il proprio corpo, i propri desideri e a dare il giusto peso alle relazioni affettive. Ricordiamo ancora una volta, a questo proposito, l’importanza di  programmi di educazione affettiva e sessuale nelle scuole (già dalle classi elementari) che possano sollevare i genitori dalla specificità di determinate tematiche, che sono retaggio di professionisti del settore medico, psicosessuologico ed educativo  che sanno conferire informazioni corrette e proporzionate all’età dei bambini e ragazzi che ne usufruiscono.

(per tutti i genitori che vogliono approfondire questo importante argomento suggeriamo le letture dei testi di Alberto Pellai)

Dott.ssa Sara Longari

Bibliografia:

Consolo I., Slides “Adolescenza e sessualità”.2016  Primo anno di corso di Psicosessuologia presso l’IISS, Roma

Dèttore D., Psicologia e psicopatologia del comportamento sessuale. McGraw-Hill. Milano 2001

Pellai A., Tutto troppo presto. L’educazione sessuale dei nostri figli nell’era di internet. DeAgostini. Milano, 2015

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Le identità multiple negli immigrati di seconda generazione.

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In un articolo precedente (link) è stato esplorato il costrutto dell’identità e approfondita l’identità sociale. La nostra identità è basata su pluri-appartenenze a vari gruppi e categorie sociali. Tutti noi rivestiamo più ruoli, di conseguenza abbiamo una identità multipla. L’identità è contestuale e relazionale, cioè essa può variare in base al contesto, al ruolo che si intende assumere in tale contesto ed alla posizione che si gioca all’interno della rete di relazioni.  Ogni persona che incontriamo nella nostra vita, appartiene a diversi gruppi sociali e queste appartenenze vengono rimescolate e moltiplicate da fenomeni, come ad esempio la migrazione e la globalizzazione, che causano l’intersecazione di gruppi e categorie che non avrebbero avuto, altrimenti, nessun tipo di contatto.

A questo punto è lecito chiedersi: “Quali sono le conseguenze di una identità sociale caratterizzata da un grado più o meno elevato di complessità?”

Da vari studi sembra che un certo grado di complessità giochi un ruolo positivo per l’identità sociale, infatti l’aumentare della stessa comporta un aumento della tolleranza e degli atteggiamenti positivi nei confronti degli individui facenti parte dell’outgroup. Gli studi e le teorie sulle appartenenze sociali multiple mostrano il bisogno di comprendere i processi in atto in una società sempre più complessa come quella in cui viviamo, al fine di programmare interventi utili a favorire e migliorare la convivenza tra gruppi sociali.  Uno dei fenomeni di maggior spicco che sta interessando l’Italia, come ogni altro Paese, è il fenomeno migratorio che  via via va allargandosi sempre più, comportando svariate conseguenze sul piano psicologico, sul nuovo inserimento in una società diversa da quella di origine, sul confronto con nuove persone, sulla socializzazione, sulla costruzione di una nuova identità. Nella mediazione di questi cambiamenti, un ruolo importante è ricoperto dalla famiglia, da sempre considerata il nido di riparo, che grazie al suo sostegno riesce a mediare le pratiche tradizionali con i nuovi stili di vita.

racismo2La famiglia gioca un ruolo fondamentale nella ridefinizione di confini psicologici e nella formazione di nuove identità, accompagna nel processo di inclusione sociale fornendo sostegno e risorse affettive, sebbene possa essere anche un luogo di conflitti e negoziazione tra pratiche tradizionali e nuovi stili di vita. (G.G. Valtolina, A. Marazzi, Milano 2006).

Le famiglie immigrate si trovano, comunque, a dover affrontare un compito più impegnativo e difficoltoso rispetto ai compiti a cui assolve una normale famiglia. Infatti le famiglie immigrate, oltre ad avere il compito di tramandare la propria cultura e le proprie radici storiche, hanno l’importante compito di informare i proprio figli sul fatto che costituiscono un gruppo minoritario nel nuovo paese, comportando, ciò, fenomeni di discriminazione e, dunque, si presenta la necessità di avere comunità più tolleranti e più inclusive nei confronti di civiltà diverse. Da diversi anni, ormai, si sente parlare di            “immigrati di seconda generazione”: con questa espressione si intendono i figli di stranieri, nati in Italia o giunti nel nostro paese nei primi anni di vita. Si tratta di una nuova tipologia di persone che matura aspettative sia da parte della famiglia che dalla società nella quale vivono, modi di vita, competenze e valori simili a quelli della popolazione autoctona, presentando tuttavia specificità e problematiche.

Non è propriamente corretto definire gli immigrati di seconda generazione come stranieri. Questi bambini, rispetto ai bambini italiani, fanno le stesse cose, sono anch’essi bambini che frequentano la scuola, parlano la stessa lingua, giocano e si divertono insieme, eppure  sono maggiormente esposti a situazioni di rischio e difficoltà psicologiche, sociali, relazionali e di carattere politico.

Essi, infatti, molto spesso incontrano disagi nei processi di costruzione identitaria, costretta ad una ridefinizione, fallimenti scolastici; marginalità, anche occupazionale; atteggiamenti di discriminazione su base etnica da parte della popolazione autoctona e tra gruppi diversi di origine immigrata; assenza di spazi personali (Ambrosini & Molina, 2004).

Parlare dell’identità dei bambini e degli adolescenti di origine straniera significa mettere al centro il tema della loro collocazione tra due mondi: quello di origine e quello di accoglienza. Nel momento in cui un individuo, nato in un determinato ambiente, emigra in un altro Paese diverso per lingua, cultura, religione, stile di vita, mette in atto delle strategie identitarie per far fronte alle richieste del nuovo ambiente e per meglio adattarsi, nel tentativo di farsi accettare, riconoscere e valorizzare. Nell’adolescente, figlio di genitori immigrati o anch’esso immigrato, la costruzione dell’identità è un viaggio tra perdite e ritrovamento che nasce e si consolida grazie alla possibilità di riconoscersi in un gruppo e di costruire una propria identità contenente aspetti della cultura passata e aspetti della nuova cultura.

consulta-cultureAvere identità multiple costituisce una risorsa importante: oltre ad attivare processi empatici e capacità di assumere prospettive multiple,  i ragazzi con identità multiple presentano maggiore flessibilità e più facile accesso ad una molteplicità e varietà  di diversi sè.  Tanta è la paura di questi ragazzi e ragazze di subire rifiuti e atteggiamenti razzistici e discriminatori, tutte  situazioni che generano malessere e che possono sfociare in ostilità e conflitto. 

Diventare grandi, costruirsi un’identità in un contesto che non è quello di origine, in un ambiente dove si realizza l’incontro e il confronto tra due culture a volte in contrapposizione, significa vivere tale processo in mancanza di forti modelli di identificazione, in quanto il modello familiare può risultare a volte debole poiché rappresenta valori e tradizioni diversi da quelli della cultura maggioritaria. Spesso il minore immigrato o di origine immigrata svaluta le figure genitoriali e la propria origine. D’altra parte però anche la cultura maggioritaria, che certamente attrae il ragazzo, non è in grado di colmare il bisogno di identificazione e di certezze poiché cultura ostile o semplicemente poco conosciuta. Ciò che poi rende particolare tale fase di crescita per i minori immigrati è vivere in coincidenza la “crisi” adolescenziale e il processo di elaborazione dell’esperienza migratoria o l’appartenenza a due mondi. Certo è che sul benessere di questi bambini incide anche il grado di ospitalità proprio dell’ambiente di inserimento. I bambini stranieri riusciranno infatti a valorizzare la loro appartenenza solo e se questa verrà riconosciuta e non limitata o sminuita.

Nella promozione dell’integrazione di culture diverse un ruolo importante è svolto dalle scuole, da sempre considerate come luogo di sviluppo culturale, capace al contempo di creare uno spazio comune dove dar vita alla comunicazione, al confronto, luogo di crescita e di coesione. Una scuola non accogliente o semplicemente non preparata ad accogliere alunni stranieri può causare un allontanamento e un abbandono di questi ultimi creando spazi di marginalità ed esclusione sociale. 

E’ fondamentale garantire le pari opportunità, promuovere la protezione, l’interesse superiore e l’accoglienza, perchè il minore straniero non accompagnato è prima di tutto minore, ma solo e straniero. Accogliere questi minori vuol dire farsi carico delle loro esigenze, assicurarsi che vengano sviluppate le condizioni adatte perchè il minore possa trovare buone prospettive di vita, dedicargli degli spazi dove trovare espressione dei suoi bisogni, salvaguardare i suoi diritti, coinvolgerlo attivamente alla vita, fornire un luogo caldo e sicuro, un luogo che eviti la solitudine del minore straniero, farlo sentire a casa. Sviluppi recenti hanno potuto mettere in evidenza che  i ” nuovi italiani” grazie all’evoluzione della tecnologia, hanno avuto modo di sviluppare una rete comunicativa chiamata “Rete G2”. I sostenitori di questa rete sono fermamente convinti che gli immigrati di seconda generazione rappresentano un’importante risorsa. Questa innovativa rete si propone tra i tanti obiettivi, anche quello di consentire a tutti di sapere quali siano le reali condizioni di questi giovani immigrati, suggerendo una modifica della legge sulla cittadinanza al fine di evitare questa continua separazione tra minori figli di immigrati e minori figli di italiani. Questa rete costituisce un’importante risorsa in grado di favorire  l’incontro e lo scambio tra giovani stranieri e italiani; azioni che sostengano la ricerca e la produzione culturale dei giovani con culture diverse, azioni che prevedano l’incontro ed il dialogo tra immigrati di prima e seconda generazione e la società italiana.

Dott.ssa Teresa Marrone

Foto prese dal web

Bibliografia

Ambrosini M., Molina S. (a cura di), Seconde generazioni. Un’introduzione al futuro
dell’immigrazione in Italia., Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, 2004.

G.G. Valtolina, A. Marazzi (a cura di), Appartenenze multiple. L’esperienza dell’immigrazione nelle nuove generazioni., Franco Angeli, Milano, 2006.

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Trauma materno irrisolto e trasmissione intergenerazionale

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Da decenni la psicologia prenatale e la psicologia dello sviluppo evidenziano l’importanza della relazione tra la madre e il bambino fin dai primi istanti di vita uterina, quando già si gettano le basi del rapporto di simbiosi della diade, dalla quale dipende lo sviluppo psichico e fisico del nascituro. Sentimenti positivi durante la gravidanza, la mentalizzazione di sé stesse come madri, l’immaginazione del proprio bambino, sono tutti fattori che contribuiscono al futuro attaccamento positivo sia della madre con il proprio bambino che viceversa. Stati di ansia e angoscia della madre invece, si sono rivelati correlati ad attaccamenti disorganizzati e a comportamenti ansiosi dei bambini nei primi anni di vita. Vi abbiamo parlato della teoria dell’attaccamento qui . La serenità della madre dunque si rivela fondamentale per lo sviluppo di un attaccamento sicuro. Cosa accade allora in quelle madri vittime di abusi di vario grado, che nel corso della vita hanno sviluppato una sindrome da stress post traumatico? Traumi irrisolti del passato e/o i traumi vissuti durante il delicato periodo della gravidanza, possono influenzare la mentalizzazione materna del proprio bambino e del proprio ruolo di madre? In che modo questi stati traumatizzanti possono influire sull’attaccamento madre-bambino?

La letteratura ha ampiamente studiato la profonda influenza del rischio depressivo sul comportamento materno, in grado di limitarne l’espressione emozionale, la qualità degli scambi relazionali e i processi di mutua regolazione affettiva (Tronick e Weinberg, 1997) e molti sono gli studi presenti in letteratura su quali siano i traumi infantili ed in che modo i traumi dei genitori siano trasmessi ai figli, e quali conseguenze suscitino sullo sviluppo le falle dell’attaccamento con le figure di cura. Minore attenzione è stata data al trauma materno durante la gestazione. Tuttavia trauma, dissociazione, modelli operativi interni ed attaccamento, sono concetti strettamente interconnessi.

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Un trauma irrisolto della madre può interferire con le sue abilità di rispondere alle esigenze del suo bambino, oltre che influenzare lo sviluppo dell’attaccamento di esso e contribuire alla potenziale trasmissione intergenerazionale del trauma. Da un recente studio è emerso che la riorganizzazione del trauma permette agli individui di comprendere e rielaborare le esperienze presenti e passate e muoversi verso un attaccamento sicuro. La riorganizzazione crea un equilibrio mentale riflessivo e valutativo, incorpora nuove informazioni per aggiungere nuove comprensioni della situazione e considerare altre prospettive, raggiungendo così anche una relazione cooperativa con l’interlocutore per attribuire un significato alla propria esperienza. In una ricerca americana i ricercatori hanno rilevato che le madri che durante l’infanzia avevano subito la perdita di un caregiver mostravano poi un attaccamento disorganizzato. Inoltre queste madri con traumi irrisolti o perdite infantili, tendevano ad avere anch’esse figli con attaccamento insicuro, in misura maggiore rispetto a madri che avevano un trauma irrisolto ma avevano sviluppato un attaccamento sicuro, a dimostrazione dell’ipotesi che l’attaccamento insicuro possa divenire intergenerazionale.

I bambini di madri traumatizzate appaiono avere anche difficoltà nel cercare conforto in condizioni di stress e dimostrano sovente un comportamento allarmato e spaventato in presenza della loro madre traumatizzata. Esplorando la relazione tra una storia di trauma e la sintomatologia di madri in attesa, con il successivo sviluppo dell’attaccamento, gli studiosi hanno trovato che il trauma interpersonale ha effetti negativi sull’attaccamento prenatale, tale che questa interferenza nella relazione madre-bambino è associata con la percezione materna che il feto sia come una “lama” nel proprio corpo. Un trauma irrisolto o una perdita, possono interferire con le aspettative materne e le percezioni del bambino, così come sulle sue abilità e capacità reattive, quindi possono compromettere lo sviluppo di un attaccamento sicuro nel suo bambino.

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fonte: ansa.it

A livello neurobiologico, recenti studi con risonanza magnetica hanno dimostrato l’impatto del trauma irrisolto sulle risposte del cervello quando la madre vede le immagini del viso triste del proprio bambino. In questo campione, le madri classificate come aventi un trauma irrisolto o una perdita, avevano una ridotta attivazione dell’amigdala, struttura neurale coinvolta nel processo emozionale che è suscettibile a cambiamenti funzionali e strutturali in risposta al trauma. Questa risposta è stata riscontrata solo quando queste madri hanno visto il volto in difficoltà del proprio bambino. Questo può riflettere il disimpegno di madri traumatizzate verso le difficoltà dei loro bambini e può contribuire alla trasmissione intergenerazionale del trauma.

Potrebbe sembrare quasi una banalità pensare che una madre che ha vissuto un trauma, che  non è stato “rielaborato” correttamente, possa poi riportare difficoltà nella propria esperienza genitoriale inficiando l’attaccamento con il figlio, ma dagli studi valutati ciò che emerge è che non è tanto il trauma in sè a causare queste conseguenze dannose, quanto la mancanza di un lavoro di riorganizzazione dello stesso trauma.

Dott.ssa Sara Longari

Bibliografia

Albasi C. Attaccamenti traumatici, De Agostini Scuola Spa- Novara 2006. UTET

Baldari L. Le prime interazioni madre-bambino; Alpes Italia .Roma -2011

Caroviglia G. Teoria della mente, attaccamento disorganizzato, psicopatologia. Carocci Editore. Roma -2005

De Zulueta F. -The treatment of psychological trauma from the perspective of attachment research. Journal of Family Therapy (2006) 28: 334–351

Ensink Karin, Lina Normandin, Mary Target, Peter Fonagy,Stephane Sabourin and Nicolas Berthelot.- “Mentalization in children and mothers in the context of trauma: An initial study of the validity of the Child Reflective Functioning Scale.”- British Journal of Developmental Psychology (2014)

Forcada-Guex M. , Ayala Borghini , Blaise Pierrehumbert , François Ansermet, Carole Muller-Nix.- “Prematurity, maternal posttraumatic stress and consequences on the mother–infant relationship.”. Hearly Human Develompment 87 (2011)

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Eccitazione e desiderio femminile: parliamone

la donna di oggi necessita di corrette informazioni per vivere a pieno la sua natura anche dal punto di vista erotico e sessuale.argomento da sempre tabù, vediamo cosa desidera e come si eccita la donna di oggi…

 

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Il modo di vivere la sessualità è naturalmente diverso tra uomo e donna. Tralasciando i luoghi comuni sdoganati sulla questione della superiorità di un genere o dell’altro, possiamo affermare che ci sono delle differenze sia a livello cerebrale, ormonale, biologico ma soprattutto a livello psicosociale tra uomini e donne, e che queste differenze devono essere accettate per  arricchirsi e non per  una inutile lotta per la supremazia dei sessi.  Ovviamente anche dal punto di vista sessuologico queste differenze sono importanti, specialmente se consideriamo  come meta ideale una vita sessuale appagante, per ottenerla è importante conoscere le differenze tra i generi e le caratteristiche anatomiche ed emotive che incrementano la funzionalità di coppia.

Secondo i pionieristici studi di Masters e Johnson  sul comportamento sessuale umano,e il contributo di H. Kaplan,  la risposta agli stimoli sessuali segue un continuum che si suddivide in 5 stadi: desiderio, eccitazione, plateau (apice dell’eccitazione), orgasmo e risoluzione.  E sebbene queste fasi siano condivise tra uomo e donna, nella pratica il loro innesco e la loro successione sono molto diversi.  Si pensi già al fatto che gli uomini hanno erezioni spontanee fisiologiche anche in mancanza di desiderio sessuale, cosa che per le donne invece non succede. Per le donne una corretta intimità è il risultato di un circuito di stimoli sensoriali, neurologici, ormonali ma soprattutto psicosociali e relazionali. 

La fase del desiderio è quindi un punto di partenza essenziale per la donna, che mette in moto il meccanismo di risposta sessuale e spesso sancisce la possibilità di un rapporto sessuale consumato o mancato. Esso può essere attivato da stimoli endogeni (fantasie, sogni, pulsioni) o esogeni (immagini, stimoli sensoriali) ed è fortemente soggetto ad una serie di fattori: ormonali (gli androgeni sono molto importanti per il desiderio sessuale femminile), relazionali (conflitti coniugali, insoddisfazione di coppia, problemi sessuali del compagno, scarsa empatia e sensibilità del compagno, ecc…), personali o culturali (stress, depressione, rigida disciplina, tabù religiosi) possono influire negativamente sul desiderio erotico femminile e quindi compromettere l’intimità sessuale della donna nella sua totalità, a tal punto da necessitare di una specifica diagnosi medica, qualora il calo o la scomparsa del desiderio persistessero da almeno 6 mesi, influendo significativamente sulla vita della donna che ne è affetta.  

Tuttavia spesso arrivare ad una diagnosi è una cosa complicata, poiché le donne fino a non molti anni fa erano considerate prive di quelle fantasie e pulsioni che invece sembravano esclusive del mondo maschile, tanto che le donne che non soffocavano la loro libido venivano giudicate e svilite (in molti casi succede ancora oggi). La sessualità della donna così oscura e misteriosa fino a pochi decenni fa (ricordiamo che gli studi di Kinsey e Masters e Johnson sulla sessualità anche femminile furono aspramente criticati dal mondo scientifico degli anni 70) si riduceva alla soddisfazione dell’uomo, alla procreazione della prole, inculcando la verginità e la castità come valori da tramandare e conservare.

Per molte donne la condizione indispensabile per la nascita del desiderio è instaurare una certa intimità con il partner, mentre gli uomini partono dal comportamento sessuale per accedere all’intimità (Consolo, 2017).

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La fase della risposta sessuale successiva al desiderio è quindi l’eccitazione che pone una serie di cambiamenti fisiologici che predispongono l’organismo al coito: questi cambiamenti riguardano l’accelerazione del battito cardiaco, del flusso sanguigno che riempie i tessuti degli organi genitali, l’aumento della lubrificazione vaginale per permettere una penetrazione agevole ed è il sintomo più evidente dello stato di eccitazione femminile. Questi mutamenti corporei hanno sia finalità riproduttive che di piacere ( ricordiamo che il clitoride femminile è l’unico organo che ha la sola funzione di provocare piacere sessuale, ed ha più fibre nervose di qualsiasi altra parte del corpo o del pene maschile), ma sovente la scarsa conoscenza dell’anatomia femminile e del ciclo della risposta sessuale causa confusione in alcune donne che confondono l’incremento del benessere sessuale o la lubrificazione che si ottiene dalla fase di eccitazione con l’orgasmo vero e proprio ( quindi in realtà molte donne potrebbero non aver mai raggiunto l’acme sessuale, ma esserne comunque convinte).

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 Anche in questa fase molte possono essere le disfunzionalità che compromettono questa fase della risposta sessuale: una scarsa stimolazione, problematiche fisiologiche o endocrine che causano secchezza vaginale, terapie farmacologiche, patologie pelviche o genitali, o inibizione psicologica. Come abbiamo già visto in questo articolo, un dolore coitale può compromettere la sana funzionalità sessuale delle donne. Spesso la causa è di natura organica, ma da attenti approfondimenti di frequente  si riscontra che il dolore può essere causato da una mancanza di desiderio o eccitazione che sono premesse importantissime per la lubrificazione vaginale come abbiamo detto;  I. Consolo (2017)afferma che ciò che crea eccitazione nella donna è la sintonia psicologica e fisica che si può stabilire con il partner (occasionale o fisso che sia),ma anche un’adeguata conoscenza del proprio corpo, un’esplorazione visiva e tattile, la pratica dell’autoerotismo possono migliorare non solo la consapevolezza di noi stesse, ma anche la buona riuscita dell’intimità di coppia, che non è e non deve essere appannaggio esclusivo dell’uomo.

Dott.ssa Sara Longari

Bibliografia

Consolo I., Il piacere femminile. Giunti, Firenze.2017

Masters W.. e Johnson V. , L’atto sessuale nell’uomo e nella donna. Feltrinelli Milano, 1967

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Attaccamento infantile e scelta del partner

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Sin dalla nascita, noi sviluppiamo e creiamo legami di attaccamento che rappresentano i nostri porti sicuri. La coppia genitoriale è la prima e fondamentale figura di riferimento, che ci guiderà verso la conoscenza e il raggiungimento dell’autonomia. Tanto più l’ancoraggio sarà solido, rassicurante e costante, tanto più ci si sentirà al sicuro e protetti, liberi di aprirsi all’esplorazione e alla conoscenza, “pronti ad allontanarci dal “porto” per avanzare in mare aperto, senza utilizzare boe di salvataggio. Al contrario, più la base è instabile, più saremo portati a utilizzare boe artificiali.” (Poudat, 2006)

Nel processo di attaccamento, il bambino crea modelli operativi interni, registrando in memoria non solo le relazioni ma anche la sfera emotiva che accompagna queste durante la crescita, modificandosi nel corso di legami futuri ma mantenendo sempre lo stampo dato dalla relazione con le figure importanti. Capire che un modello di attaccamento è disfunzionale o patologico è molto difficile, perchè comporta la revisione e la modifica di pilastri che hanno accompagnato l’individuo sin dalla tenera età, dandogli la possibilità di conoscere un determinato modo di relazionarsi, considerandolo adattivo.

L’attaccamento infantile ha da sempre destato particolare interesse tanto da spingere diverse branche della psicologia e non solo ad approfondire l’argomento. Uno dei maggiori sviluppi nell’ambito dell’attaccamento infantile è stato offerto dallo psicoanalista britanico John Bowlby, la cui teoria è stata in seguito ampliata da una sua allieva, la psicologa canadese Mary Ainsworth.

Gli stili di attaccamento

Secondo Bowlby  l’attaccamento è un bisogno innato e fondamentale legato alla ricerca di sicurezza e benessere, e la sua assenza provoca importanti conseguenze sullo sviluppo del sistema affettivo e cognitivo. Bowlby (1989) ha individuato tre principali stili di attaccamento nella diade madre-bambino:

  • STILE SICURO:  il bambino si sente libero di andare alla ricerca di quello che ancora non conosce, di esplorare in tranquillità l’ambiente perchè vede la madre come un porto sicuro, dal quale può allontanarsi e fare ritorno. La madre si mostra apprensiva e capace di rispondere ai bisogni del piccolo, dando sollievo ai suoi malesseri, evitando di anticipare i bisogni ma aspettando che questi si sviluppino.
  • STILE INSICURO/EVITANTE: il bambino è scettico e non si fida della figura di riferimento, al punto da reputarla inefficace e inefficiente nella realizzazione dei suoi bisogni. Sviluppa insicurezza e sfiducia dei confronti degli altri, sente di non essere amato e incrementa la tendenza all’evitamento. La madre non è in grado di rispondere in maniera tempestiva ai bisogni del bambino, si occupa solo del soddisfacimento dei bisogni primari trascurando quelli emotivi, creandogli mancanze che si trasformano in paura di essere abbandonato.
  • STILE ANSIOSO/AMBIVALENTE: Questo stile di attaccamento si presenta come discontinuo e instabile. La madre alterna periodi in cui è positivamente presente a periodi in cui è perennemente assente, alternando le fasi in maniera brusca. In questo modo il bambino non riesce a sviluppare il giusto grado di sicurezza e attaccamento, ma al contrario svilupperà insicurezza nell’esplorazione dove predominerà  l’ ansia di abbandono.

Ad esclusione dello stile di attaccamento sicuro, negli altri predominano due dimensioni: l’ansia di abbandono, di essere respinti e non apprezzati e l’evitamento, l’essere più o meno coinvolti nella relazione e mantenere una certa distanza emotiva per non farsi coinvolgere eccessivamente.

Crescendo i legami di attaccamento subiranno qualche modifica, nel senso che non dipenderanno esclusivamente dalla vicinanza fisica con la madre, ma anche e soprattutto da sentimenti quali fiducia, sicurezza, autostima, che il bambino avrà interiorizzato nella relazione con l’altro. 

Mary Ainsworth, sulla scia di Bowlby, nel 1969 mise a punto una speciale tecnica di osservazione chiamata Strange Situation per studiare l’interazione tra i sistemi di attaccamento e di esplorazione del territorio in situazioni di stress. Individuò i seguenti stili di attaccamento: SICURO, INSICURO-EVITANTE, INSICURO- AMBIVALENTE che corrispondono rispettivamente all’attaccamento Sicuro, insicuro-evitante e ansioso – ambivalente individuati da Bowlby. In tutti e tre gli stili di attaccamento esplorati, non si evidenziano comportamenti patologici e il bambino dimostra di organizzare il suo comportamento adattandolo al contesto familiare, ma è comunque innegabile che lo stile di attaccamento sicuro sia quello più funzionale nello sviluppo del bambino, favorendo la nascita di un equilibrio e adattamento, che lo accompagneranno nell’esplorazione e nel raggiungimento dell’autonomia. A questi tre stili di attaccamento, successivamente è stato aggiunto un altro, ritenuto patologico: l’ATTACCAMENTO DISORGANIZZATO/DISORIENTATO. Questo modello è stato individuato nello specifico da Mary Main e Juduth Solomon intorno al 1980 per individuare uno stile di attaccamento carente e mancante di strategie di comportamento. Si ha l’assenza di un pattern d’attaccamento che sia orientato ad un fine, presentando comportamenti contraddittori e non finalizzati come essere immobili, coprirsi gli occhi alla vista della figura della madre, rigidità e iperallerta.

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Quello che il genitore apprenderà nell’ infanzia, lo riproporrà nel legame con i propri figli. Lo stile di attaccamento, però, influenza anche la scelta del partner e i futuri legami affettivi in generale. 

Riprendendo quanto illustrato da Pierrehumbert e Miljkovitch in una tabella sulla relazione esistente tra attaccamento infantile, atteggiamento in età adulta e scelta del partner, Cesare Guerreschi (2011) afferma che in base al modello di attaccamento sperimentato, la persona sarà portata a scegliere un certo tipo di partner e, di conseguenza, una certa relazione sentimentale. In base a ciò ne consegue che:

  • Una persona con ATTACCAMENTO SICURO, non mostrando particolare timore ad affrontare l’abbandono e non manifestando dipendenza dagli altri, sarà in grado di costruire una relazione stabile, con un partner sicuro e autonomo. Accetta il passato, positivo o negativo ed ha fiducia in sè e negli altri. 
  • Una persona con ATTACCAMENTO EVITANTE, avendo difficoltà nel dare fiducia al prossimo, tenderà a cambiare spesso partner per evitare il coinvolgimento eccessivo nella storia. Si mostra quasi indifferente alle esperienze relazionali ed ha fiducia in sé, ma non negli altri. La paura e il timore di essere invaso eccessivamente lo porteranno a scegliere un partner evitante.
  • La persona con ATTACCAMENTO AMBIVALENTE, infine, manifesta forte paura nei confronti di un possibile abbandono, non nutre abbastanza fiducia in se stessa e teme di  non essere amata abbastanza. La risposta a ciò si concretizzerà in una fusione totale con il partner, evitando in tutti i modi la separazione, con il rischio che l’altro fugga  di fronte ad un coinvolgimento morboso.

E’ bene ribadire, però, che non sempre si va alla ricerca di un partner dal cui legame possa nascere una relazione simile a quella genitoriale. Questo è quello che succede nella maggior parte dei casi, ma può anche succedere che, al contrario, si sviluppi la tendenza a trovare un compagno o una compagna con cui costruire una relazione opposta a quella genitoriale. In altri casi, ancora, si costruirà un legame in cui si avrà la coesistenza di entrambe le tendenze, in questo caso la relazione della coppia per alcuni versi ricorderà il modello genitoriale, per altri richiamerà uno tendenzialmente opposto. 

Concludendo, gli schemi cognitivi sperimentati durante l’infanzia influenzano la costruzione dei legami in età adulta, ricercando relazioni che vadano a confermare ciò che è stato sperimentato, che si conosce e di cui si ha una determinata aspettativa. Confermando lo schema mentale, per esempio, una persona che non si fida del prossimo ed è convinta di non poter meritare amore, tenderà a scegliere un partner in grado di soddisfare tale aspettativa, una persona di cui non si può fidare e che non manifesta sentimenti di amore. Però, può anche succedere di uscire dagli schemi e trarre beneficio: questo è quello che accade quando, ad esempio, una persona con attaccamento sicuro incontra un partner con attaccamento insicuro. In questo binomio all’apparenza instabile e conflittuale, lo stile sicuro può offrire nuovi modi di concepire e vivere la relazione, stabilità e certezza, cercando di contenere l’ansia di abbandono o di evitamento dello stile insicuro.  

Il viaggio verso la conoscenza profonda di se stessi non è semplice, ma è importante prendere consapevolezza, anche attraverso l’utilizzo di un esperto, di come funzioniamo, cosa ci spinge verso certe scelte piuttosto che altre, conoscere e comprendere i processi di cui non si è consapevoli e darsi la possibilità di guardare gli eventi con nuove lenti.

Dott.ssa Teresa Marrone

 

BIBLIOGRAFIA

Bowlby, J. (1989). Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento. Milano: Raffaello Cortina Editore.

Guerreschi, C. (2011). La dipendenza affettiva. Ma si può morire d’amore? Milano: Franco Angeli Edizioni.

Poudat, F.X. (2006). La dipendenza amorosa. Quando l’amore e il sesso diventano una droga. Roma: Castelvecchi editore.

 

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La paura del “diverso” : come nascono i pregiudizi e gli stereotipi

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Quando si parla di pregiudizio nel linguaggio comune si fa riferimento ad un’accezione di tipo negativo, come un’antipatia  verso singole persone, gruppi o minoranze. In realtà il pregiudizio è un tipo di giudizio formulato “a priori”, cioè prima della conoscenza diretta e può essere sia negativo che positivo.  In psicologia sociale la definizione condivisa di pregiudizio è appunto un’antipatia o un atteggiamento sociale denigratorio verso particolari gruppi, che viene esteso in maniera indiscriminata per tutti gli appartenenti ad essi (Voci, Pagotto, 2010).  Ovviamente l’idea socialmente condivisa è che questo sentimento sia deprecabile, tuttavia gli studiosi psicosociali hanno sottolineato che il pregiudizio è un prodotto del normale funzionamento della mente umana. Questi meccanismi mentali sono di natura cognitiva e motivazionale. Le basi cognitive del pregiudizio riguardano gli schemi mentali, la categorizzazione ed il ruolo di sé.  Gli schemi rispondono ad un sistema di economicità del cervello, ossia ogni stimolo o informazione registrata diventa uno schema che torna saliente quando si presenta un altro stimolo simile; quando gli schemi si riferiscono a gruppi di persone prendono il nome di stereotipo.  Lo stereotipo è una semplificazione della realtà tramite rappresentazioni mentali che raggruppano concetti in base a fattori che li accomunano (ad es: i tedeschi sono tutti biondi), tralasciando quelli che invece li differenziano.  Quindi potremmo dire che lo stereotipo è l’effetto collaterale del normale processo di categorizzazione, secondo il quale la complessità dell’ambiente viene ridotta associando stimoli simili nello stesso insieme categoriale.  Naturalmente il processo di categorizzazione riguarda anche il Sé: la rappresentazione cognitiva di sé stessi tramite la quale delimitiamo confini tra noi stessi e gli altri.  Il Sé comprende anche il concetto di identità sociale, coniato dal celebre psicologo sociale Tajfel, che riguarda il sentimento di appartenere ad un gruppo sociale detto ingroup (noi) diverso da un altro outgroup (loro). È facile intuire che il risultato immediato di questo processo è la preferenza per l’ingroup, che si traduce in stereotipi negativi e pregiudizi a svantaggio dell’outgroup.  Questo meccanismo basilare è dimostrato da Tajfel creando in laboratorio gruppi di partecipanti divisi in base alla preferenza di quadri di Klimt o Kandiskij: già in queste condizioni artificiose, che non previdero interazioni o conoscenze tra i partecipanti, si presentarono forme di discriminazione tra i due gruppi, dimostrando come la categorizzazione sia alla base della nascita dei pregiudizi.

 

La distinzione tra ingroup e outgroup è quindi importante perché fornisce informazioni sui comportamenti e sul mondo sociale, è fonte di sostegno emotivo e materiale e definisce la propria identità sociale. Naturalmente i fattori che determineranno quale categoria verrà usata in una determinata situazione, dipenderanno dal contesto: ognuno di noi è immerso in un vasto numero di realtà gruppali, come la famiglia, il gruppo religioso, quello scolastico, quello lavorativo, quello politico, con finalità norme e relazioni differenti al suo interno. Ma il minimo comune denominatore sarà la categorizzazione di sé che in quel momento renderà saliente un gruppo piuttosto che un altro.  Quindi se due individui sono membri dello stesso gruppo politico, condivideranno pensieri, emozioni, appartenenza e saranno separati dall’outgroup di cui fanno parte persone di fazioni politiche opposte. Ma se diventa saliente la categoria “genere sessuale”, l’assetto ingroup e outgroup cambia e si troveranno a far parte dello stesso gruppo le donne da una parte e gli uomini dall’altra giudicandosi di nuovo rispettivamente ingroup e outgroup.

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Inoltre è interessante la percezione intergruppo sull’omogeneità dello stesso: i membri degli outgroup sono percepiti come maggiormente omogenei rispetto a quelli ingroup   (“loro sono tutti uguali mentre noi tutti diversi”). La percezione di omogeneità ovviamente è più attribuita all’outgroup poiché si parte dal presupposto che i membri dello stesso gruppo abbiano maggiori rapporti tra loro, si conoscano meglio e quindi avranno una rappresentazione più differenziata e complessa dei propri membri rispetto a quelli outgroup ( ad es: non vi è capitato di pensare che i cinesi si assomiglino tutti tra loro, di fare fatica a distinguerli e di percepirli tutti uguali? Eppure la popolazione cinese è una delle più numerose della terra, quindi è molto più probabile che ci sia ampia varietà di individui, tratti e caratteristiche che la contraddistinguano) . Inoltre all’interno del gruppo è compreso il proprio Sé, quindi l’identificazione con l’ingroup porta la naturale preferenza per esso e  il giudizio positivo per rafforzare la propria autostima. L’appartenenza ad un gruppo definisce una parte del sé, l’identità sociale, quindi una persona potrebbe fare attribuzioni interne e sentirsi addosso tutto il peso delle discriminazioni per il proprio ingroup, sperimentando dannose conseguenze sul proprio benessere. Questa condizione di sofferenza però può creare all’interno del gruppo discriminato un clima solidale, di sostegno reciproco e di identificazione sociale maggiore, stimolandone i membri a unirsi, attraverso movimenti, manifestazioni e attività per modificare la situazione di sofferenza.  Quindi se come dicono gli studi, si tende maggiormente a favorire il proprio gruppo, piuttosto che denigrare l’outgroup, come mai si riscontra sempre più spesso un accanimento discriminatorio nei confronti di altri gruppi minoritari ( migranti, gruppi politici o religiosi, ecc..)?

Molti studi hanno evidenziato che la distanza tra le culture, o semplicemente tra due gruppi diversi, è dovuta all’ansia che sperimentano i propri membri in una situazione di interazione; ansia dovuta alla non conoscenza dell’altro o alla sensazione di minaccia del “diverso e sconosciuto”. L’ansia può essere vissuta sia tra i gruppi che devono entrare in relazione tra loro, sia tra i gruppi discriminati che sperimentano di conseguenza una peggiore performance e la conferma dello stereotipo negativo.  Gli studiosi hanno dimostrato come l’assunzione di prospettiva e l’empatia abbiano un forte potenziale sull’avvicinare le persone e quindi possano risultare molto efficaci nel ridurre il pregiudizio. questo accade perché la prospettiva di un’altra persona ci consente di capirne pensieri ed emozioni: l’atto di “mettersi nei suoi panni” è uno strumento per comprenderne gli atteggiamenti e se una persona si trova in una situazione di disagio o sofferenza, può portarci a reagire in modo compassionevole e provare empatia.

“L’empatia viene sentita come la comprensione dell’altro che si concretizza immergendosi nella sua soggettività senza sconfinare nell’identificazione.”

Carl Rogers

Assumere la prospettiva di un’altra persona, specialmente se si tratta di gruppi discriminati, può essere un’efficace strategia per migliorare le relazioni integruppi perchè porta una riduzione di sentimenti negativi e l’attuazione di comportamenti di aiuto (Voci,Pagotto. 2010). Essendo quindi l’empatia una risposta emotiva che fa leva sui sentimenti delle persone, può agire direttamente sulla componente affettiva del pregiudizio, riducendolo.  Ovviamente questo non è sufficiente, poichè se ascoltare la storia di un gruppo vittima di pregiudizio, produce una risposta emotiva che riduce il livello di ansia, tale risposta potrebbe essere indirizzata solo verso il membro dell’outgroup di cui si conosce la storia e non estenderlo a tutti i membri, poichè non è giudicato rappresentativo dell’intero gruppo.

Per questo lo psicologo Gordon W. Allport ( 1897-1967) era convinto che il pregiudizio fosse il risultato di una scarsa conoscenza tra i gruppi, e quindi si poteva ovviare attuando programmi di integrazione basati sul contatto.

Il contatto concepito da Allport aveva 4 precondizioni indispensabili per la riuscita: la natura cooperativa delle interazioni, la presenza di scopi comuni, l’interazione tra i gruppi di simile status e la presenza di un sostegno istituzionale. Il corpo di questa ipotesi tuttavia si svolge su un dibattito  in vigore ancora oggi : è emerso che quando le 4 precondizioni vengono rispettate, vi è un’effettiva riduzione del pregiudizio, ma vi sono anche casi in cui gli altri livelli di pregiudizio impediscono che vi sia il contatto.

Per esigenze di brevità e per la complessità di questo argomento, in questa sede è impossibile dare un’ampia lettura degli studi, degli esperimenti e dei risultati, e lungi da chi scrive pensare di ridurre tutto a situazioni causa-effetto quando si parla della varietà umana. Tuttavia è nostro interesse sottolineare come spesso, la paura del diverso sia solo il risultato della non conoscenza, e ciò che non si conosce spaventa. I fatti di cronaca sono pieni di episodi di violenza, sui social dilagano atteggiamenti negativi e discriminanti verso le minoranze più disparate, e spesso anche attività ludiche come la fede calcistica si trasformano in episodi di violenza. Per questo, potrebbe essere utile, come suggeriscono Voci e Pagotto, mostrare alle persone attraverso i mass media o in specifici programmi scolastici che nelle società sono presenti molteplici ingroup incrociati tra loro e quindi che la dicotomia “noi -loro” è mutevole e instabile e non può essere la base per una percezione attendibile della realtà.  E’ auspicabile considerare la diversità come un concetto di ricchezza comune e non come handicap.

 

Dott.ssa Sara Longari

 

Bibliografia

Allport, G. W. The nature of prejudice. New York: Addison-Wesley, 1954.

Tajfel, H. (1981)- Gruppi umani e categorie sociali. Bologna: Il Mulino, 1995.

Voci-Pagotto – Il pregiudizio, cosa è e come si riduce. Bari: Ed. Laterza, 2010

 

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“Dall’idea al progetto: la nascita di Tiresia”

“Un mito è la metafora di un mistero che va oltre la comprensione umana. Si tratta di una storia che ci aiuta a capire, per analogia, alcuni aspetti misteriosi di noi stessi. Secondo questa concezione, un mito non è una falsità, ma un modo di raggiungere una profonda verità”.

(Christopher Vogler)

Gentile lettore/ lettrice,

l’idea di creare questo Blog nasce dalla volontà di tre Psicosessuologhe che alla fine del percorso formativo in Sessuologia clinica hanno deciso di condividere la loro passione per questa disciplina attraverso la divulgazione di tematiche ancora poco dibattute, in quanto ancorate all’ignoranza, a falsi miti, tabù e stereotipi radicati e diffusi nel tessuto socioculturale d’appartenenza.

Lo scopo principale di Tiresia è quello di approfondire argomenti di Psicologia e Sessuologia utilizzando un linguaggio il più possibile semplice in maniera tale da essere comprensibile a chiunque abbia il piacere di leggere queste pagine, trasmettendo una corretta informazione scientifica al fine di contrastare la cattiva informazione e il pregiudizio ed allo stesso tempo sdoganare gli stereotipi psicosessuologici presenti nella nostra cultura, promuovendo e migliorando il rapporto con sé stessi e con gli altri in un’ottica di mutuo rispetto e di accettazione dell’altro come diverso da Sé.

Buona lettura!